Roman Polański è uno dei più brillanti registi della storia del cinema.
Nel 1977, tre anni dopo aver girato Chinatown, splendido film con Jack Nicholson nei panni del protagonista, violentò una tredicenne nella villa di quest’ultimo, “con l’ausilio di sostanze stupefacenti”. Fu arrestato con sei capi d’accusa. L’avvocato della ragazzina, per evitare di farla deporre pubblicamente in tribunale, propose a Polański un patteggiamento, che prevedeva la riduzione dell’accusa al solo capo di rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne. Il regista si dichiarò colpevole, scontò una brevissima pena carceraria e – quando si rese conto che il giudice non gli avrebbe concesso la condizionale per il restante periodo di detenzione – fuggì in Europa. Sebbene figuri nella lista rossa dell’Interpol, è stato arrestato solo una volta, a Zurigo nel 2009, ed è stato rilasciato.

Da allora, Polański non è mai tornato negli Stati Uniti e ha preso la cittadinanza francese. Ha diretto numerosi film e vinto una valanga di premi. Nel corso degli anni, molti personaggi pubblici – sia del campo cinematografico che non – si sono esposti per difenderlo. Tanti altri, invece, non hanno dimenticato. Ad ogni premio, ad ogni nuova uscita, ad ogni tappeto rosso si sono verificate proteste.
Una delle più visibili è avvenuta il 28 febbraio di quest’anno, alla cerimonia dei César, gli Oscar francesi. L’ultima fatica del regista polacco, L’ufficiale e la spia, ha vinto tre premi su dodici candidature, tra cui quello personale al Miglior regista, andato a Polański appunto, che non si è presentato per ritirarlo. Quando quest’ultimo prestigioso premio è stato assegnato, un gran numero di donne e di uomini hanno lasciato la sala. A guidare la protesta è stata l’attrice Adèle Haenel, che a novembre aveva raccontato di essere stata molestata sessualmente dal regista Christophe Ruggia quando aveva dodici anni, per tre anni. Non è stata l’unica: altre cinque attrici (e dodici donne in totale) hanno denunciato il regista di averle violentate quando erano giovanissime. Per i personaggi femminili dei suoi film, Polański si affida a un gruppo di attrici fidate e fedeli.

La giusta protesta divampa a intervalli regolari, e con la stessa cadenza le si oppongono le solite argomentazioni in difesa della separazione tra l’uomo e l’artista: “Caravaggio era un assassino, stracciamo le sue tele?”, “Il Colosseo è frutto del sistema schiavista, lo abbattiamo?” e via discorrendo. Argomentazioni anacronistiche, che volutamente ignorano i contesti e le circostanze. Polański lavora adesso, in una realtà contemporanea dove lo stupro è un reato ovunque, in un’industria cinematografica che dopo il caso Weinstein ha promesso di non dare più certe cose per scontate, di smettere di nasconderle in piena vista.
Nessuno può vietare ad un uomo libero di lavorare, ma tutti possono rifiutare di lavorare insieme ad uno stupratore (presunto seriale). Tutti possono evitare di finanziare i suoi progetti, di premiarlo, acclamarlo e, soprattutto, di giustificarlo.
Filippo Minonzio