The Brutalist: il nuovo film con Adrien Brody arriva in Italia

A partire dal 25 gennaio approda nelle sale l’ultimo film di Brady Corbert: The Brutalist (2024)
Si tratta di un’opera cinematografica audace quanto la filosofia architettonica da cui prende il nome: un film intriso di ambizione, rigore formale e peso tematico. Attraversando trentatré anni della storia americana del dopoguerra, il film racconta il viaggio dell’architetto ebreo ungherese László Tóth, interpretato con intensità struggente da Adrien Brody, mentre affronta le promesse e le delusioni del sogno americano. Con una narrazione epica, una straordinaria maestria visiva e una riflessione profondamente sentita sulla diaspora, il trauma e l’eredità artistica, The Brutalist si posiziona come una delle opere più imponenti del cinema contemporaneo.

Il film si apre con una metafora visiva mozzafiato: la Statua della Libertà sembra cadere dal cielo, segnalando la fragilità degli ideali che rappresenta. Questo inizio audace è accompagnato da una narrazione meticolosa. L’arrivo di László in America nel 1947, dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, è intriso di speranza e stanchezza. La regia di Corbet, arricchita dalla colonna sonora inquietante di Daniel Blumberg, cattura l’essenza agrodolce di questo momento: un uomo che anela al rinnovamento mentre è perseguitato da perdite indicibili. La prima metà del film, intitolata “L’Enigma dell’Arrivo”, è ricca della vitalità e della tensione dei nuovi inizi.

Adrien Brody indossa a pennello i panni di László, raggiungendo una complessità emotiva che forse supera persino i suoi lavori migliori. Tóth è un uomo spezzato dal passato: vive in ripostigli, spala carbone e anestetizza il dolore con l’eroina, ciononostante è determinato a ricostruire una vita da capo. Brody infonde al personaggio una ferocia silenziosa, combinando vulnerabilità, resilienza e una visione artistica intransigente. Le sue interazioni con Attila e con il suo mecenate, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), rivelano le sfaccettature di un uomo che lotta sia per sopravvivere che per esprimere se stesso.
Van Buren, un industriale facoltoso che commissiona a László la progettazione di un centro comunitario, emerge come uno specchio oscuro dell’idealismo dell’architetto. L’interpretazione di Guy Pearce è inquietante, crudele e affettata, in grado di rendere Van Buren al contempo mecenate e predatore: un uomo la cui ricchezza permette crudeltà mascherate da sofisticazione culturale. Le sue interazioni con László sono cariche di tensione, i loro dibattiti intellettuali intrisi di un sottotesto di sfruttamento.
Felicity Jones, nei panni della moglie di László, Erzsébet, offre un contrappunto ancorato alla grandiosità della narrazione. La sua riunione con László è segnata da dolori inespressi e speranze timide. La chimica tra Jones e Brody dona autenticità alla loro relazione frammentata, catturando il modo in cui il trauma modella l’intimità. La regia di Corbet è implacabile nella sua ambizione. La decisione di girare in VistaVision e di proiettare il film in 70mm non è un mero esercizio di stile, ma parte integrante della narrazione stessa. I fotogrammi espansi e la cinematografia grandiosa rispecchiano il monumentalismo della visione architettonica di László, mentre il ritmo deliberato permette che il peso delle esperienze dei personaggi si depositi nello spettatore.

Nonostante la sua indubbia grandezza, The Brutalist non è privo di difetti. La seconda metà del film perde parte della concentrazione narrativa che rende così avvincente la prima parte. Man mano che la storia si avvicina alla conclusione, Corbert sacrifica parte della profondità emotiva a favore di un’esposizione tematica più massiccia e difficile da metabolizzare. I salti temporali, sebbene necessari per coprire la narrazione decennale, a volte risultano bruschi, lasciando alcune evoluzioni dei personaggi poco approfondite. Il finale frettoloso non è in grado di evocare la stessa emotività della prima porzione del film.

In definitiva, The Brutalist è una meditazione sull’esperienza dell’immigrato, sull’integrità artistica e sugli effetti corrosivi del potere. Cattura il paradosso del sogno americano, una promessa di libertà che spesso nasconde crudeltà sistemiche. Attraverso il viaggio di László, il film interroga i costi dell’ambizione e i compromessi imposti a chi osa sognare. È una testimonianza della resilienza dello spirito umano, ma anche un sobrio promemoria dei cicli di violenza e sfruttamento che plasmano il nostro mondo. Maestoso, duro e epico esattamente come lo stile brutalista.
Insomma, il film è un’opera audace e intransigente che consacra Corbet come una delle voci più temerarie del cinema contemporaneo. Una pellicola destinata a restare impressa, come le linee nette di un edificio brutalista, sfidando gli spettatori a trovare bellezza nella sua verità spoglia.

Crediti immagini:

Rebecca Isabel Siri

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