
Siamo ormai giunti al tramonto di quello che è stato, a tutti gli effetti, il mondo dell’economia liberale, progressista, del laissez-faire e del libero mercato. Lo scorso martedì 22 febbraio, il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha pubblicato l’ultima edizione del World Economic Outlook (WEO), il rapporto che offre un’analisi approfondita della congiuntura economica globale.
Secondo quanto emerge dal documento, le previsioni di crescita dell’economia mondiale sono state riviste al ribasso, passando dal 3,3% stimato nel rapporto di gennaio al 2,8%. Anche le prospettive per gli Stati Uniti sono state corrette: la crescita attesa per il 2025 scende all’1,8%, rispetto al precedente 2,7%.
A prima vista, queste previsioni potrebbero non apparire allarmanti. Tuttavia, è importante ricordare che sono trascorsi appena quattro mesi dall’insediamento di Donald Trump alla presidenza e meno di un mese dall’introduzione dei dazi annunciati durante l’Inauguration Day.
Il contesto economico globale non è mai apparso tanto incerto. A preoccupare non sono soltanto i dati, che già di per sé offrono segnali chiari, ma soprattutto l’imprevedibilità delle mosse dell’amministrazione Trump, che rende estremamente difficile formulare stime attendibili sull’evoluzione futura dell’economia mondiale.
A volte i dazi vengono introdotti con l’obiettivo di essere successivamente rinegoziati. Altre volte, invece, si assiste a un vero e proprio “botta e risposta”, come nel caso della Cina, in cui entrambi i Paesi alzano progressivamente i dazi in un’escalation fatta di dichiarazioni e ritorsioni reciproche.
Ma la domanda, soprattutto considerando l’apparente inutilità e complessità di un simile scenario, sorge spontanea: chi trae realmente beneficio da questa situazione?
Prima di rispondere, è necessario porsi un’altra domanda: perché è tornato così di moda promuovere un mercato protezionista?
I due argomenti principali a favore del libero commercio internazionale sono, da un lato, che offre ai consumatori una maggiore varietà di beni e, dall’altro, che lo fa a un costo inferiore. Il commercio globale permette una più ampia possibilità di scelta e alimenta la concorrenza tra le imprese, che così sono spinte a innovare e migliorare i propri prodotti.
Inoltre, il commercio internazionale consente ai Paesi di specializzarsi in quei settori in cui sono più efficienti o in cui dispongono di risorse abbondanti. Questa specializzazione aumenta la produttività complessiva e riduce i costi di produzione e consumo a livello globale.
L’introduzione di dazi, però, ha due effetti principali: da un lato, rende le importazioni più costose; dall’altro, induce un aggiustamento del tasso di cambio nominale, in modo che un dato valore di importazioni possa essere finanziato con un valore inferiore di esportazioni.
In parole semplici, ciò significa che un Paese riesce a importare le stesse quantità di beni spendendo meno. Questo è ciò che gli economisti chiamano esternalità dei termini di scambio (terms-of-trade externality).
Un esempio per chiarire meglio questo concetto: supponiamo che l’Italia decida di sovvenzionare le proprie aziende esportatrici per renderle più competitive. Aumenterebbero le esportazioni italiane, e di conseguenza si rafforzerebbe l’euro. Un euro più forte permetterebbe all’Italia di acquistare più beni dall’estero a un prezzo inferiore.
Tuttavia, questo meccanismo funziona solo se gli altri Paesi non reagiscono. In caso contrario, gli effetti si annullerebbero e il risultato finale sarebbe un aumento dei costi per tutti, minore efficienza e prezzi più alti per i consumatori globali.
Tutto ciò, però, non sembra preoccupare Donald Trump. Perché? Perché, sebbene l’analisi tenga sul piano aggregato, gli effetti negativi di una guerra commerciale non colpirebbero i segmenti più influenti dell’economia statunitense.
E qui arriviamo al punto critico.
L’aumento dei dazi non solo rende le importazioni più care, ma comporta anche una ristrutturazione interna dell’economia, riducendo gli incentivi alla specializzazione. I settori che competono con le importazioni, protetti da una minore concorrenza estera, possono espandersi. Al contrario, i settori orientati all’esportazione diventano meno competitivi a causa del rafforzamento del dollaro e, quindi, si contraggono.
Questo cambiamento comporta anche un aumento della domanda di lavoratori meno qualificati e una riduzione dei salari per quelli più qualificati, poiché i settori dipendenti dalle importazioni tendono a richiedere competenze più basse.
Di conseguenza, i beneficiari principali di questo riequilibrio sarebbero proprio gli operai, in particolare quelli degli stati della Bible Belt e della Rust Belt, ovvero le aree dove il consenso politico repubblicano è più forte.
In conclusione, per quanto le azioni di Trump possano apparire goffe o improvvisate, in realtà rispondono a una logica ben precisa: garantire vantaggi a quelle fasce dell’elettorato che costituiscono il cuore del consenso repubblicano. Non a caso, il partito Repubblicano gode di un crescente sostegno e si avvia con buone probabilità verso una vittoria nelle prossime elezioni di metà mandato (midterm elections).
Ecco perché, nonostante gli effetti negativi sulla stabilità dell’economia globale, il protezionismo continua a trovare supporto: perché risponde a interessi politici concreti, anche al prezzo di una potenziale guerra commerciale.
Rayan Badr
Fonti:
W. Lechthaler, M. Mileva: Trade Liberalization and Wage Inequality: New Insights from a Dynamic Trade Model with Heterogeneous Firms and Comparative Advantage, Kiel Working Paper No. 1886, Kiel Institute for the World Economy, 2013.
W. Lechthaler, M. Mileva: The dynamic and distributional aspects of import tariffs, Kiel Working Paper No. 2082, Kiel Institute for the World Economy, 2017.
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