Scheuomorfismo. L’utilità dell’inutile nel design digitale

Al giorno d’oggi non è praticamente più possibile fare a meno dei dispositivi digitali. Computer, cellulari, tv: li abbiamo sempre davanti, che sia per lo studio, per il lavoro, per lo svago. Una caratteristica fondamentale di questi dispositivi è la facilità d’uso: ad esempio, la presenza di icone e simboli permette di trovare facilmente le cartelle, l’app delle foto o il cestino per buttare via i file inutili e liberare un po’ di spazio nel telefono. La domanda è: perché usiamo le immagini di oggetti reali anche per le cose virtuali?

Facciamo un salto all’indietro. Nel 1890 Henry Colley March, medico e archeologo in erba, pubblica un articolo sulla rivista Transactions of the Lancashire and Cheshire Antiquarium Society intitolato “Il Significato dell’Ornamento o la sua Archeologia e Psicologia”. Nell’articolo, March conia un termine dal suono bizzarro: scheuomorfismo. Ricavato dall’unione dei due termini greci skeuos, “strumento”, e morphé, “forma”, il neologismo si riferisce ad un elemento del design di un oggetto che non sarebbe più necessario al suo funzionamento, ma che è stato mantenuto per motivi estetici. March propone un esempio dall’età della pietra: inizialmente, per tenere insieme gli utensili (come le asce di pietra, ad esempio), si usavano delle strisce di cuoio; con l’avanzare della capacità tecnica e manuale dell’uomo, le strisce sono diventate obsolete, perché gli oggetti venivano uniti tramite tecniche di incastro o con la lavorazione dei metalli. Quello che è interessante però è che anche in oggetti di molto successivi al “superamento” dei lacci è comunque possibile trovare incisioni a forma di strisce di cuoio intrecciate, messe lì solo per bellezza. Il motivo dei lacci di cuoio è quindi uno scheuomorfismo: le persone si aspettavano i lacci e hanno avuto i lacci, anche quando non servivano più, di fatto, a nulla. Un esempio più attuale potrebbe essere quello dei pavimenti in laminato che riproducono l’aspetto del parquet: non sono altro che un modo di impreziosire l’aspetto di un oggetto, riproducendo quello di altri oggetti dello stesso tipo ma più pregiati. 

Quindi, se a volte, gli scheuomorfismi hanno ragioni puramente ornamentali, altre rispondono al bisogno di rendere familiare qualcosa di nuovo: è il caso della rappresentazione stilizzata della calcolatrice sull’icona che avvia la funzione sul cellulare. Gli oggetti digitali non hanno gli stessi vincoli del mondo reale, ma sono spesso realizzati per somigliare ad oggetti del mondo reale. Non c’è una reale ragione pratica per cui l’app Libri su un iPhone debba assomigliare ad una vera libreria, ma lo è, perché è familiare. Su quest’ultimo aspetto, è curioso notare come talvolta le icone raffigurino oggetti che, dal momento della creazione dell’icona a oggi, sono caduti in disuso: è il caso della cornetta del telefono per indicare le telefonate, che immaginiamo ormai resista solo a casa delle vostre nonne o nei mercatini dell’usato. 

Certo March non si sarebbe immaginato che, più di un secolo dopo, il suo termine sarebbe stato protagonista di un acceso dibattito nel campo della progettazione dell’interfaccia digitale: infatti, alcuni sostengono che la progettazione scheuomorfistica sia ormai superata, mentre altri sostengono la necessità di un’interfaccia il più possibile intuitiva e user friendly. Per dirla con un post di James Higgs, software developer americano, i disegni scheuomorfismi sarebbero ormai obsoleti “perché sono falsi: cercano di confortarci per proteggerci, mostrandoci come si colleghino ad oggetti del mondo reale per farci sentire a nostro agio” (tdr). Il recente successo di design minimalisti e il rapido progresso delle interfacce gestuali basate sul tocco sta infatti ridefinendo il panorama delle interfacce utente: attualmente stiamo andando verso la direzione del bilanciamento tra la familiarità dello scheuomorfismo e l’efficienza del design moderno. 

C’è un altro problema con gli scheuomorfismi: l’uso di questo tipo di design limita ciò che un oggetto digitale può fare, essere e sembrare – e anche ciò che noi pensiamo che possa fare, creandoci false aspettative sulla sua fruizione. Un libro digitale (come il formato Kindle) può sembrare un libro vero, ma in realtà non si possono fare tutta una serie di cose: toccare le pagine, sentirne il profumo, girarne due insieme, fare le orecchie per tenere il segno o pasticciare sui margini. Addirittura, molte ricerche confermano che chi legge su uno schermo ricorda meno contenuto di quanto avrebbe fatto se il libro fosse stato cartaceo: forse ne sono complici queste restrizioni nell’esperienza di lettura. 

Per concludere, si potrebbe anche dire che la tendenza scheuomorfismica renda conto dell’innata tendenza umana al bello, al decoro, all’estetica. Verrebbe da chiedersi se la rimozione dello scheuomorfismo non porti alla luce un aspetto inquietante delle interfacce, e cioè proprio il fatto di non essere parte di un oggetto familiare: la mancanza di legami con il mondo reale, di colori e di forme ci farebbe lo stesso venir voglia di usare i nostri amati strumenti digitali, o sarebbe l’inizio del loro disuso

Arianna di Pascale

Fonti: 

https://time.com/archive/6643581/flatland/

https://www.ilpost.it/2023/02/11/scheumorfismo/

https://www.bbc.com/news/magazine-22840833

Sul vantaggio dei libri di carta per la memoria: https://www.iltascabile.com/scienze/lettura-digitale/#:~:text=Varie%20ricerche%20confermano%20che%2C%20in%20effetti%2C%20chi%20legge,lo%20stesso%20testo%20su%20una%20pagina%20di%20carta

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