Con questa intervista ripercorriamo insieme i suoi 50 anni di carriera e scopriamo la grande artista e la persona speciale che è Franca Dorato.
Gli allievi di Cadantea colgono l’occasione per ringraziare la loro “mamma di palcoscenico”, che oltre ad essere un’insegnante di recitazione incredibile, è anche una maestra di vita e un esempio di valori quali il rispetto, il rigore, la professionalità e la sensibilità.
- Il 12 maggio ha raggiunto un grande traguardo, 50 anni di carriera. Come si sente?
Mi sento come fossero passati non dico cinque mesi, ma cinque anni. Nel senso che non li sento così onerosi e faticosi. Il lavoro di scena è sempre ora; quindi, è vivere in un continuo presente ed essere in un’altra dimensione. In realtà questa situazione sospesa, questo posto che per me sta tra il magico e il sacro, il palcoscenico, è un elisir di lunga vita.
- C’è stato un momento preciso in cui ha deciso che avrebbe voluto dedicare la sua vita alla danza e al teatro?
Sì, avevo sei anni e ho “sentito la chiamata”. Innanzitutto, mia mamma mi portava a vedere il teatro dei burattini e delle marionette. Una volta, a scuola, la maestra ci portò a vedere uno spettacolo al Teatro Carignano di Torino. Quel luogo è stato magico per me, perché il pensiero semplice di una bimba di sei anni è stato: “Io voglio stare sempre qui”. Quel qui voleva dire palcoscenico, velluti rossi, bordature dorate e il contesto del Teatro Carignano, che è un barocco meraviglioso: era un sogno.
- Che cosa ne hanno pensato i suoi familiari? Hanno approvato e/o supportato la sua scelta?
Fifty fifty, nel senso che mia madre mi ha sempre supportato. Invece, mio padre era più pragmatico e mi ha osteggiato abbastanza.
- Si ricorda un aneddoto della sua infanzia che le dà la conferma che questo fosse il percorso adatto a lei?
Penso di essere stata fortunata ad aver incontrato questa maestra, perché abbiamo sempre dei maestri nella nostra vita che ci indicano la via. Mentre le altre maestre facevano fare i soliti giochini, lei ci faceva giocare al teatro e inventare delle scenette. Da quello che capivo, lei era sempre stupita dalle cose che realizzavo. È stato un incentivo talmente forte che penso sia stato quello. Non è stata una folgorazione immediata, ma un’endovena continua.
- Fra la danza e il teatro, quale delle due occupa il gradino più alto sul podio del suo cuore?
Scelgo una cosa a metà, cioè il teatrodanza. Per me è difficile scegliere tra la danza e il teatro perché si compensano. Se dovessi decidere cosa “mandare giù dalla torre”, forse terrei la danza e la pantomima perché sono più immediate e universali. La parola, invece, ha il limite della lingua.
- Oltre alla danza, ha praticato ginnastica ritmica. Che cosa ne pensa di questo sport, anche in relazione ai recenti scandali?
Ho un ricordo molto positivo. Andavo all’Augusta Taurinorum, era rigorosissima, ma a me non faceva specie perché facevo anche danza. Per me le due discipline erano vicine: una più energica, schematica e acrobatica, l’altra più morbida e fluida. Purtroppo, nella ginnastica ritmica e non solo, oggi si tende a spingere al limite, che può essere una cosa interessante, però certe volte disumanizza chi ci sta dietro. Ci sono degli eccessi, la società porta ad avere questo tipo di approccio. Io sono totalmente fuori da questa visione. Sono per essere inclusiva, cercando il meglio e rispettando le persone.
- In quale scuola superiore ha studiato?
Testa “artistoide” da sempre, volevo fare il liceo artistico. Apriti cielo! Non è stato possibile perché i miei sostenevano che non mi avrebbe dato niente di concreto e che ci sarebbero state persone “particolari”. Alla fine, ho frequentato l’istituto tecnico Bodoni. È stata una scelta difficile da digerire per i miei genitori perché era considerato un sottoprodotto culturale. Il programma offriva corsi come fotografia, storia dell’arte e copia dal vero, oltre alle materie curriculari. Si è rivelata una scelta felicissima perché, tra le molte cose, ho imparato a disegnare con la luce e ho studiato la teoria di Adolphe Appia sui piani inclinati. La luce è la prima a colpire l’occhio umano e a creare un’emozione. A livello della messa in scena, le luci sono il cento per cento dell’atmosfera del racconto. Se usate bene, permettono a una scenografia semplicissima di diventare potentissima.
- Dove ha studiato danza? E recitazione?
Il primo anno delle superiori sono stata scelta per fare l’allieva ne La lezione di Ionesco. Ho cominciato una formazione ad personam per questo personaggio. Andavo a lezioni di dizione da Bonazzi, che era il gotha per Torino. Questo è stato il mio inizio: sono stata buttata nell’olio bollente. Il mio primo regista è stato Roberto Tessari, docente a Palazzo Nuovo e al Teatro Stabile.
Invece, per quanto riguarda la danza, ho incominciato da un corso a scuola e poi sono andata dalla Hutter. Nel ‘76 sono arrivata al Teatro Nuovo e sono entrata in compagnia, al tempo c’era la Furno.
Come formazione, ho fatto due anni di Lettere, però non riuscii a frequentare perché ero già in compagnia. Poi l’Isef… peggio ancora! Andavo benissimo, ma non mi sono diplomata perché mi mancavano delle firme. A Torino c’era l’obbligo di frequenza e io non potevo spendere altri anni per nuotare o fare canestri. Nel frattempo, mi sono formata artisticamente a Monaco, a Parigi e nel sud della Francia in diverse scuole tecniche.
Due persone hanno studiato il mio modo di lavorare, che è estrapolato dalle mie esperienze e si chiama armonia del movimento. Se posso fare un postulato, l’armonia del movimento è l’arte del divenire. È una forma di teatrodanza che ingloba le varie tecniche e rispetta le realtà delle singole persone. Ho scoperto con gli anni che è il modo vincente di lavorare con i bambini, perché c’è rispetto per la loro giovane età. Io non lavoro con dei bambini, ragazzi o adulti, ma con delle persone. Il risultato è il massimo che si può ottenere dalle loro possibilità e dalle mie idee. Il pubblico se ne accorge e fino ad ora (tocchiamo ferro) è sempre stato contento di vedere un lavoro vero. Non mi piace andare in scena e fare “il buffone” per far divertire la gente. Adesso che ho una certa età, mi scosto da certe realtà che trovo, per essere gentile, solo gigionesche. Si ride solo se, nel contesto di quello che sto portando in scena, serve la risata.


Anna Baracco
