Il movimento cinematografico della Nouvelle Vague francese è noto per aver portato nel cinema il racconto diretto di una generazione in fermento, quella della fine degli anni Cinquanta, una generazione che si opponeva fortemente al moralismo di quella precedente. L’istinto per la provocazione viene riflesso in un cinema di sperimentazione, sia per quanto riguarda i mezzi, sia per le forme. Questo movimento così importante viene spesso rappresentato, nei manuali di cinema e negli articoli di approfondimento, dalle opere dei suoi registi più famosi come François Truffaut, Jean-Luc Godard e Éric Rohmer (tutti maschi). Negli ultimi anni, per fortuna, altre figure meno conosciute stanno finalmente ricevendo il riconoscimento che meritano. Tra questi, la fotografa, regista e sceneggiatrice – con alcune incursioni anche nel campo della performance art – Agnès Varda che, all’interno del gruppo, ricoprì un ruolo singolare e di pioniera. Varda sostenne di sentirsi, tra i registi del gruppo, sempre “l’eccezione, la quota o l’elemento decorativo, la mascotte”. Andiamo a vedere come, invece, ne sia stata una dei protagonisti più interessanti.
Agnes era una femminista ma, anche in questo campo, si distinse per la sua posizione singolare e per la sua originalità. Portò sullo schermo personaggi femminili allora inediti, come la protagonista di Cléo de 5 a 7. In questa pellicola del 1962, attraverso una struttura narrativa innovativa fatta di mancanza di ellissi narrative, divisione in capitoli, uso massiccio del travelling per sottolineare il vagabondaggio di Cleo per la città, racconta la storia di una cantante che deve aspettare due ore prima di avere i risultati di un esame medico. La paura di poter avere il cancro agisce come una sveglia che le permette di sperimentare il mondo intorno a sé come non aveva mai fatto. Cléo, frivola e superficiale all’inizio, apre gli occhi alla realtà che la circonda, come quella della guerra in Algeria, personificata da un soldato in licenza che, come lei, è oppresso dalla paura per il futuro.
L’uscita del suo film La Bonheur, nel 1965, portò con sé tutta una serie di polemiche e reazioni negative. Quelle che ferirono di più la regista non furono quelle dei critici, che la considerarono una pellicola infantile e superficiale, bensì quelle delle femministe, che la denunciarono come un atto di compiacenza nei confronti del patriarcato. Il film racconta la storia di un triangolo amoroso: François è sposato con Thérèse, che si dedica a lui anima e corpo, ma a un certo punto conosce Émilie e se ne innamora. Dopo la morte misteriosa della prima, la seconda, nonostante il suo carattere indipendente, finisce per ricoprire il ruolo della moglie perfetta, rimasto vacante. Il film in realtà denuncia il ruolo degli stereotipi nella nostra costruzione dell’immaginario di felicità, che risulta essere falso quanto le immagini delle cartoline, senza moralismo e in maniera implicita come la grande arte sa fare.
L’impegno per i diritti delle donne è durato tutta la sua vita, che si è da poco conclusa, nel 2019, all’età di 91 anni. Il suo femminismo si è manifestato anche nella sua lotta per l’indipendenza economica, con la creazione della sua propria casa di produzione, Ciné-Tamaris: un esempio tanto più importante in un periodo come il nostro in cui sui social frequentati dai più giovani, in particolare su Tik Tok, sta spopolando il trend delle trad wives, giovani donne che scelgono di non lavorare per poter fare le casalinghe a tempo pieno. Varda si è espressa sovente sul ruolo che le donne occupano nel mondo del cinema e su quello che invece meriterebbero di occupare, ben più centrale. Nel 2018 fu invitata a intervenire al Festival di Cannes dal collettivo francese, Coollectif 50/50, che lotta per la parità in campo cinematografico. Le sue parole e le sue opere sono la manifestazione di una donna che ha dovuto convivere con un ambiente ostile e che, però, è sempre riuscita a esporre le sue idee con forza ma anche con semplicità.
Vista l’attualità del tema nel mondo statunitense, può essere interessante sottolineare che Varda fu sempre un’orgogliosa gattara. Ebbe molti gatti e uno di quelli che amò maggiormente, Zgougou, figura nel logo della sua casa di produzione ed è apparso in alcuni suoi film come Les Glaneurs et la Glaneuse e Deus ans après. Non solo gatti in carne ed ossa: li amava anche sotto forma di dipinti e sculture che si dedicò a collezionare nel corso degli anni.
La regista è rimasta sempre una donna curiosa verso la vita e le novità in ambito artistico, tant’è che nel 2017 collaborò, per la pellicola Visages Villages, con il fotografo e street artist famoso su Instagram, JR (@jr). Si tratta di un road trip attraverso la campagna francese: attraverso le fotografie di JR stampate in formato gigante sulle facciate delle case, Varda ricorda i murales che tanto la colpirono negli anni della contestazione studentesca a Los Angeles. Quello fu il periodo della sua amicizia con Godard il quale, come il giovane fotografo, era solito nascondersi dietro occhiali scuri. Alla fine del film, JR rivela i suoi occhi alla vecchia regista che sta pian piano perdendo la vista: un gesto simbolico, come la chiusura di un cerchio.
Giulia Menzio
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