Burlesque: non solo un revival

Uomini in frac, donne con abiti a frange, night club clandestini, l’atmosfera piena di fumo. Poi, di colpo, si alza il sipario, parte la musica e una donna in déshabillé inizia a cantare. Chi non conosce il burlesque? Ormai è entrato a pieno titolo nel novero delle espressioni artistiche del ventunesimo secolo. Si tratta di un approccio moderno e irriverente al classico cabaret, capace di ritagliarsi, negli ultimi trent’anni, una fetta di pubblico man mano sempre più consolidata: persino i più distanti da questa forma d’arte sanno riconoscerla quando la vedono di sfuggita in televisione, al cinema o sui social media.

Cosa c’è dietro questo tipo di spettacolo? Ci può dire qualcosa sulla società di oggi e sullo spirito dei tempi? E inoltre, com’è nato?

Dita Von Teese, la “regina del burlesque“, in uno dei suoi numeri più famosi. Cortesia di Repubblica.
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Il burlesque è legato a doppio filo con un genere di show più antico e che ha sempre rappresentato (forse in un’ottica eccessivamente romantica) la decadenza della società di fine ‘800: il cabaret. Nato in Francia, fin da subito si distingue per la ricerca di forme nuove, in cui confluiscono art nouveau, dadaismo, simbolismo e tutte le correnti artistiche tipiche dei primi vent’anni del secolo scorso.

Nonostante il termine di per sé esistesse dal 1200 e i café-chantant almeno da duecento anni, il primo locale moderno di questo tipo fu Le Chat noir, aperto nel 1881 a Montmartre: fu l’inizio di un vero e proprio boom e così, poco più di quarant’anni dopo, Europa e nord America vennero invase da locali di cabaret e della sua variante più generalista, il varietà. I veri poli di questa forma d’intrattenimento rimasero due: uno, quello storico, fu la Francia; l’altro la repubblica di Weimar, nata dopo la Prima guerra mondiale. Nonostante la spaventosa crisi economica e sociale che si respirava nel neonato Stato tedesco, a Berlino ci furono delle espressioni di modernità mai viste prima: gay club, la Bauhaus, l’Institut für Sexualwissenschaft (“Istituto di sessuologia“, la primissima vittima dei roghi di libri da parte dei nazisti). È in questo hummus effervescente che il cabaret trovò nuova linfa, analogamente a quanto avveniva nella Parigi della Terza Repubblica.

E poi? Poi arrivarono il nazifascismo, la Seconda guerra mondiale e il periodo di egemonia culturale statunitense. Arrivarono i musical, il rock’n’roll, il country. Il cabaret finì lentamente nell’oblio.

Drag queen che ballano nell’Eldorado, famosissimo cabaret di Berlino, poi divenuto sede delle SA naziste. Cortesia di Imago.
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A tirarlo fuori dalla soffitta è stato Cabaret, film del 1972 ormai entrato nella leggenda. Diretto da Bob Fosse e interpretato da Liza Minelli, Michael York ed Helmut Griem, sulla carta sarebbe dovuto essere un disastro: i musical non erano più in voga da vent’anni, era un film drammatico e funestato da dissesti finanziari continui. Eppure, le musiche iconiche e immediatamente riconoscibili, la storia intrigante e l’ambientazione nella Germania di fine anni ’20 lo hanno reso un classico senza tempo.

Così negli Stati Uniti tornò l’interesse per il cabaret o, come veniva chiamato da loro, per il burlesque. Il primo club di neo-burlesque nasce infatti a New York, nel 1994, col nome di Blue Angel Cabaret; viene seguito poi dal Red Vixen Burlesque, nel 1998, che ha fatto da trampolino di lancio ad alcuni dei più grandi nomi del genere, come Dirty Martini o Julie Atlas Muz. Ulteriore volano è stato Chicago, film del 2002 con Rob Marshall alla regia e Catherine Zeta-Jones, Renée Zellweger e Richard Gere nel cast. Acclamato da critica e pubblico, viene candidato a tredici premi Oscar e ne vince ben sei, oltre a tre Golden Globe e due premi BAFTA. Inoltre, contribuisce a riaccendere ancor di più il fascino per i Roaring Twenties e a far tornare l’immaginario del cabaret presso il grande pubblico. Altro grande successo è Moulin Rouge!, di Buz Luhrmann, con Nicole Kidman, sempre sullo stesso filone. Da lì, il burlesque è rapidamente tornato in Europa, diffondendosi soprattutto nella natìa Francia, in Gran Bretagna e in Germania, proprio come un tempo.

Liza Minelli è Sally Bowles in Cabaret. Cortesia di ACMI.
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Le ragioni di questo ritorno sono complesse: questi ultimi vent’anni sono stati caratterizzati da rivendicazioni di maggiore libertà di espressione da parte delle donne, della comunità LGBTQ+ e delle persone discriminate per motivi razziali. L’attenzione alle tematiche circa la libertà dei corpi, argomento molto popolare nell’antropologia contemporanea, può essere una chiave di lettura: le categorie discriminate rivendicano la propria autonomia e la propria identità attraverso il proprio corpo. Mostrarlo è dunque un atto politico – o quantomeno viene inteso come tale sia da chi lo pratica sia da chi lo critica – che fa da manifesto culturale e sociale. Le minoranze esistono, vogliono essere ascoltate, viste, capite, accettate. Nel burlesque il corpo è centrale: boa di piume, perizomi, copri-capezzoli e autoreggenti lasciano scoperta la maggior parte del corpo di chi è sul palco. È sovversivo, audace, scanzonato, ma soprattutto erotico. È proprio l’erotismo che lo rende così speciale: non è pornografico perché si limita a suggerire, eppure proprio per questo a molti appare così affascinante. Si vorrebbe vedere oltre, ma non si può; così nel desiderare si rimane rapiti, oltre che dalla musica, dal carisma di chi mette in atto la performance (chiamata act nell’ambiente).

Jake DuPree, perfomer non-binary di burlesque, posa in lingerie. Cortesia di Yahoo.
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Il burlesque è dunque un fenomeno sociale che va ben al di là del semplice numero cantato su un palco in un locale buio. In un periodo in cui i diritti delle minoranze sono attaccati in maniera sempre più feroce e isterica, piume di struzzo e autoreggenti sono simboli pregni di significato. Sono una rivendicazione di libertà, di sensualità, di esistenza, una sfida all’odio alimentato da una certa parte politica e all’indifferenza e al moralismo dell’altra. Il tutto con splendidi costumi, musiche divertenti e tanta, tanta pelle in mostra.

Vincenzo Ferreri Mastrocinque

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