Mentre il riscaldamento globale ha già superato la soglia di 1,5 °C, i negoziati internazionali sul clima avanzano ancora con il freno a mano tirato. Tutti gli occhi sono adesso puntati su Belém (Brasile), dove a Novembre si terrà la prossima Conferenza delle Parti sul clima: la COP30.
Ma qual è la situazione attuale? Con quale bagaglio politico e negoziale ci avviciniamo all’appuntamento di Belém? Per capirlo, è necessario fare un passo indietro e guardare a una delle conferenze più rilevanti — e più sottovalutate — dell’anno: i 2025 June Climate Meetings, che si sono tenuti a Bonn, nel cuore dell’Europa.
Dal 16 al 26 giugno scorsi, infatti, nella prestigiosa venue del World Conference Center di Bonn, in Germania, si è tenuta la cosiddetta “mini-COP“, che si merita questo nome proprio perché considerata come la tappa intermedia per eccellenza verso la stessa Conferenza per il clima. Questo evento, organizzato sotto l’egida delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico, si tiene ogni anno nel mese di giugno, appunto, costituendo un incontro tecnico fondamentale nel quale si preparano i dossier negoziali per la COP di Novembre. Secondo un elenco provvisorio divulgato dalle Nazioni Unite, i partecipanti registrati in loco sono stati 9.486, con 1.575 presenze online aggiuntive.
I June Climate Meetings di quest’anno si inseriscono in una congiuntura di eventi particolarmente delicata: l’assenza degli Stati Uniti, il 2024 confermato come l’anno più caldo mai registrato (con temperature superiori di oltre 1,5°C rispetto alla media 1850–1900) e l’attesa per la presentazione delle NDC 3.0 – i nuovi Nationally Determined Contributions, cioè le strategie di mitigazione dei Paesi per il periodo 2030–2035, che a giugno avevano presentato solo in 25. Nonostante il tempo stringa e le NDC 3.0 possano rappresentare l’ultima possibilità per contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5°C, i passi compiuti durante la conferenza di Bonn sono stati molto limitati.

Il tono è stato dato già in apertura, il 16 giugno, quando i negoziati si sono bloccati per quasi due giorni a causa dell’impossibilità di raggiungere un accordo sull’adozione dell’agenda. Una proposta avanzata dal gruppo dei LMDCs (Like-Minded Developing Countries), volta a includere nelle discussioni le misure unilaterali restrittive del commercio – come potrebbe essere la CBAM europea – e le responsabilità finanziarie dei paesi sviluppati (come previsto dall’Articolo 9, paragrafo 1 dell’Accordo di Parigi), ha incontrato forte opposizione da parte del Nord globale. Alla fine si è raggiunto un compromesso: i due punti non sono stati inseriti nell’agenda ufficiale, ma con l’impegno di riprenderli nei prossimi fora internazionali. Nonostante ciò, questi temi sono rimasti “l’elefante nella stanza” e sono stati discussi in numerose sessioni parallele.
Qualche progresso si è registrato, invece, sul tema dell’Obiettivo Globale sull’Adattamento (GGA), per cui era stato adottato un framework condiviso alla COP28: le negoziazioni sono continuate per definire un massimo di 100 indicatori centrati su persone e natura entro la COP30, con l’obiettivo più ambizioso di raggiungere dei target di adattamento comuni e tracciabili in maniera trasparente. Per quanto riguarda il fondo Loss and Damage, il Santiago Network ha mostrato segnali di operatività con un primo supporto tecnico allo stato insulare di Vanatu, ma gli strumenti e i finanziamenti per l’adattamento rimangono ancora fortemente insufficienti. A Bonn si sono tenute, poi, le prime consultazioni per la Baku to Belém Roadmap, un progetto che mira a scalare la finanza climatica destinata ai paesi in via di sviluppo (PVS), fino ad arrivare ad almeno 1,3 trilioni all’anno entro il 2035 – ancora insufficienti se si considera che alcuni report stimano a 6 triliardi i fondi necessari per attuare i piani d’azione climatici dei PVS entro il 2030, senza contare i costi per l’adattamento.
Per i rimanenti dieci punti dell’agenda, nessun accordo è stato raggiunto, e addirittura in alcuni casi, come per il filo negoziale della mitigazione, le discussioni si sono arenate. In molte sale, comunque, sono stati prodotti dei documenti solo informali che raccolgono le posizioni delle varie parti – o si è semplicemente “preso atto” dei progressi compiuti – che serviranno come base negoziale alla COP30 di Belém. La Climate Conference di Bonn ha lasciato, quindi, un senso di amarezza, in quanto gli sforzi e i risultati raggiunti sono ancora largamente insufficienti rispetto a quelli necessari per rallentare il riscaldamento globale, e l’obiettivo di 1,5°C sembra sfumare nel silenzio generale – anzi, viene da chiedersi se tale obiettivo sia mai stato preso seriamente.
Le categorie marginalizzate – comunità indigene, persone con disabilità, ecc. – sono, poi, sottorappresentate: ancora troppe persone sono escluse dalla partecipazione alle conferenze climatiche, tra cui tante voci vulnerabili che non trovano un finanziamento per il viaggio o a cui non viene rilasciato un visto valido. La youth – termine che ha un posto centrale nella propaganda delle Nazioni Unite – ha una presenza limitata nei processi di decision-making; a niente è servita la pressione dei giovani attivisti del Bonn Climate Camp, tra i quali anche Greta Thunberg, stanziatisi di fronte ai palazzi dell’UNFCCC.

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I June Climate Meetings di Bonn hanno lasciato anche molti dubbi irrisolti – ed è con questi dubbi che ci avviciniamo a Belém.
Con la sedia vuota lasciata dagli Stati Uniti, pare che adesso tocchi all’Unione Europea – spalleggiata da Canada, Australia e Regno Unito – ricoprire il ruolo dell’antagonista. Con l’UE in questa posizione, sarà più facile raggiungere consensi e accordi? Chi si assumerà la responsabilità di rallentare l’azione climatica?
È chiaro che il multilateralismo e la cooperazione internazionale stiano vivendo un momento di forte debolezza e il mondo sembra più che mai spaccato tra Nord e Sud globale. Come risanare la fiducia persa tra le Parti? Il sistema di target volontari istituito dall’Accordo di Parigi può funzionare o abbiamo bisogno di ripensare gli spazi internazionali in cui gli accordi sul clima vengono negoziati?
Mentre le Nazioni Unite subiscono un grave ridimensionamento e taglio ai finanziamenti, i maggiori contributori dell’UNFCCC per il 2026-2027 saranno Bloomberg Philantropies (20%) e la Cina (20%). Viene quindi da chiedersi quale sia il ruolo effettivo di questo forum internazionale, quale il suo potere, e quanta sia invece la dipendenza dai grandi attori e interessi internazionali.
Potrebbe servire del tempo per dare una risposta a queste domande, ma il clima non aspetta. E mentre i leader mondiali rimandano le decisioni cruciali, il pianeta continua a scaldarsi. È tempo di trasformare le promesse in azione concreta: COP30 non potrà permettersi un altro passo falso.
Serena Savarese
