Dal romanzo “giallo” al “noir”

Una sinestesia letteraria chiamata Philip Marlowe

Nel mondo della letteratura si consumò, ormai quasi un secolo fa, un singolare caso di acromatopsia di cui la nostra lingua, l’italiano, ancora conserva una traccia silenziosa.
Tutto ebbe inizio nel 1929, negli uffici della sede milanese della Mondadori. Qui, un gruppo di editori inaugurava, dando prova di un certo genio pubblicitario, una nuova collana di narrativa dedicata al genere poliziesco. Il primo titolo era un’opera di Gaston Leroux — autore francese noto, ma dimenticabile. Ciò che è davvero importante ricordare è invece, stranamente, il colore della copertina di quel primo volume: giallo. Le detective stories erano già conosciutissime in tutta Europa e oltre, eppure accadde che qui in Italia si iniziò a chiamarle in modo del tutto diverso. E quel colore ispido, forse per ironia della sorte, aveva in effetti molto a che fare con il contenuto dei volumi. I lettori si accorsero di colpo, come dopo un’amnesia, quale fosse sempre stato il colore dell’ingegno e dell’intuizione, dell’enigma e della sagacia: il giallo, appunto.

Ma non finì qui. Noi tutti sappiamo oggi che il giallo è un mare vastissimo, comprende centinaia di opere e innumerevoli sottogeneri. Tra questi, però, uno in particolare, dai toni meno consolatori e artefatti, si distinse, e in questo caso la consuetudine alla didascalia e al materialismo che la nostra lingua mortale naturalmente manifesta s’inceppò. Il nome che ne venne fuori fu azzeccatissimo: “noir”. Niente di speciale fin qui, potreste dire; senonché questo “nero” nacque proprio in seno a quell’abbondanza di luce dell’ingegno “giallo” di Mr. Holmes e Monsieur Poirot. Quel che accadde, infatti, fu che — a causa della singolare forza magnetica della loro prosa — quei racconti “noir” causarono nei lettori una deformazione ottica sistematica: quasi istantaneamente, ogni frequenza dello spettro visibile iniziò a tradursi in due semplici stimoli cromatici — bianco e nero.

Ma chi era il genio maligno dietro questa fattura? Erano uomini d’oltreoceano, che già da qualche tempo avevano cominciato a sperimentare con i colori, i sentimenti e le loro relazioni. Ciò di cui si accorsero è che lì dove abitavano, nel Nuovo Continente, questa sintesi cromatica era possibile. Tutto lo spettro dei colori si poteva ridurre, senza perdite significative, a quel binomio essenziale. Un uomo su tutti si distinse per l’intensità con cui credette in questo esperimento: Raymond Chandler. Genitore, insieme a Dashiell Hammett — un investigatore privato del Maryland —, della prosa “hard-boiled” e unico genitore, invece, del suo eroe più celebre, Philip Marlowe. Un figlio difficile, ‘diabolico’ a tratti, al quale Chandler affidò tuttavia il compito di condensare in parola vibrante, in forma, quello speciale esperimento.

Fu così che la prima avventura di Philip Marlowe vide la luce — nell’anno 1939 — e da quel momento iniziò a diventare parte della dieta letteraria dei cittadini di tutto il mondo, conquistando anche i palati più esigenti. Il poeta inglese W.H. Auden ebbe da dire delle sue avventure che esse non rappresentavano solo una “letteratura d’evasione”, ma vere e proprie “opere d’arte” ( https://harpers.org/archive/1948/05/the-guilty-vicarage/). Il motivo non risiedeva tanto nell’attrattiva che i suoi modi mascolini e al contempo maldestri esercitavano sul pubblico, ma in quel suo messaggio insolito, in quella patologia che silenziosamente infettava i suoi lettori fino a renderli, a loro insaputa, complici di quel pazzo esperimento del suo creatore.

In tutti e sette i romanzi in cui Marlowe compare (e gli innumerevoli racconti), lo si vede mettere in pratica, saltando da un caso all’altro, da una donna all’altra, un codice etico singolare — idealistico, cavalleresco a tratti— che Chandler riassunse così: “Giù per queste strade, meschine, un uomo deve traversarle; lui stesso che mai fu meschino, né corrotto, né pavido… E dev’essere un uomo completo, e un uomo comune, ancorché insolito… Dev’essere il miglior uomo nel suo mondo e in qualsiasi altro un uomo buono abbastanza” (https://masonstreetreview.org/2020/10/23/the-great-wrong-place-raymond-chandlers-los-angeles-at-70/).

Meschino è, quindi, il mondo in cui si aggira Marlowe: un mondo in cui la più alta aspirazione, nell’ambito dei rapporti interpersonali, è quella di essere convincente; non amati, ma tutt’al più stimati o temuti per le azioni di cui si è stati capaci.

L’Hollywood Boulevard di Los Angeles, 1934 (fonte: https://it.pinterest.com/pin/35465915787600197/)

Queste sono le silhouette bianche che popolano lo sfondo. Uno sfondo nero che si estende indefinitamente ai lati del campo visivo, tremendo e reale come una malattia. Sulla sua superficie
Marlowe muove il suo occhio bicromatico, veloce e curioso, affondando per un attimo lì dove odorava i sentimenti più veraci e trascurando invece con sufficienza il chiacchiericcio.

Più furbo solo a volte di violenti e delinquenti, si getta sulla poltrona del suo ufficio a Hollywood, alza lo sguardo verso il cielo e, avvolgendo la città intera, scandisce la sua sentenza: “insipida e stanca”. Los Angeles: se c’è un colpevole per tutto ciò che non quadra è lei. O, al massimo, il cliente di turno, che per soli 25 dollari al giorno è convinto di tenerlo al guinzaglio. Ma se c’è una parola d’ordine per quest’eroe, quella è “tenere le distanze”: sempre meglio soli, d’altronde, che male accompagnati. Eppure, per quanto lui non voglia, si finisce per amarlo, desiderosi che quel suo stato di solitudine si prolunghi e ci permetta di passare qualche minuto in più con lui: giusto il tempo di vederlo allacciarsi una scarpa o firmare una missiva.

D’altro canto però, proprio perché impariamo a volergli bene, vorremmo vederlo partecipare di più, vederlo essere meno “diabolico”. Ma perché rimanga così puro ai nostri occhi, è forse necessario che rimanga diffidente, anche verso noi lettori. Ciò che ci è concesso, al limite, in quanto destinatari della sua cronaca al passato remoto, è una frase ammiccante di tanto in tanto e qualche strambo paragone confezionato con irriverenza e ironia. Un’ironia così tentata, d’altro canto, di abbandonare il mondo per trasferirsi sulle stelle, dove abbondano il sogno, la metafora, il mito e i simboli dell’inconscio collettivo. Potremmo pensare che sia un peccato destinare un’indole simile a un’umanità tanto misera quanto quella che lo circonda; eppure, nessuno ha scelto per lui di diventare investigatore privato. Alcuni, rimanendo non molto lontani dal vero, potrebbero parlare infatti di questa scelta come di un male necessario.

E non può darsi forse, a questo punto, che alla fin fine Marlowe sia un angelo? Un angelo forse molto in ombra, zuppo di chiaroscuro, ma proprio per questo tra i messi più scaltri e pazienti della provvidenza. Può darsi… Ciò che è certo è che Marlowe ci ha insegnato cosa significhi — per così dire — “vivere noir”. Respirare aria sudicia mentre si aspira al lucore freddo e chiaro della luna, consapevoli del fatto che non esiste (perlomeno su questa terra) un posto migliore in cui stare. Una bella vita in una villa di campagna sarebbe un sogno, certo, sempre ammesso che fosse sopportabile anche al di là dei margini di un testo.
Così, probabilmente, direbbe Marlowe.

Mario Sugamiele

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