Quando una donna racconta la sua storia non è solo lei a parlare. La storia della sua vita non è un canto solitario e non lo può essere: la sua voce che si fa parola, inchiostro, memoria, contiene gli echi delle voci delle donne che l’hanno preceduta, giunte fino a lei trascinate dalla potenza di una forza rimasta inespressa. Quest’amalgama di voci perdute crea una sinfonia inedita, dissonante.
Un fantasma in gola di Doireann Ní Ghríofa, edito da Il Saggiatore con la traduzione di Claudia Durastanti, è un testo dolorante, sanguinante, posseduto da un canto antico che si fa strada nel presente, da un canto nato da un pianto, da un lutto che trascende la morte. Un canto che diventa coro, un canto che si sdoppia, lacerando l’esistenza di Doireann per poi ricomporla. La voce che inonda le giornate dell’autrice fatte di poppate, notti insonni, tiralatte e di liste di cose da smaltire è quella di Eibhlín Dubh Ní’ Chonaill, una scrittrice settecentesca autrice di un lamento gaelico, il Caoineadh dedicato al suo amore perduto Art.
Il canto, letto su un’antologia scolastica, riemerge nella mente dell’autrice durante gli unici momenti liberi della giornata e con il suo carico di omissioni e di non detti la spinge a dedicarsi totalmente alla ricerca di informazioni sulla vita della misteriosa scrittrice. Una missione che ha radici più profonde di un semplice vezzo accademico: una necessità viscerale di riportare alla luce ogni lacerto di informazione sulla vita di questa donna, di conferire un posto in un’esistenza a un poema esule sospeso nel vuoto.
Un fantasma in gola si articola attraverso un gioco di riflessi, di immagini che si specchiano e si alternano, e la narrazione non è destinata a conservare questa divisione netta dei ruoli, ma punta alla mescolanza, alla contaminazione che traspone la possessione letteraria sul piano metanarrativo e plasma il tessuto testuale. Il fantasma di Eibhlìn è una presenza carnale e indomita, perpetua come ciò che è eterno e feroce come ciò che esiste, convocata a strappare l’esistenza dell’autrice dal velo mortifero di una vita cristallizzata. La morte e la vita si riversano senza soluzione di continuità nel calderone della finzione letteraria, con la staticità temporale dell’aldilà e l’urgenza vitale della finitezza dell’esistenza.
“Questo è un testo femminile” è la prima avvertenza di Ni Ghrìofa a chi legge: un testo che con la sua dirompenza ha spazzato via gli elenchi di compiti quotidiani fatti di mansioni da cancellare con una riga. Il percorso di scoperta della vita di un’altra donna non può essere spezzettato in una serie di piccole missioni da depennare man mano che vengono portate a termine, ma è un andare a tentoni nel buio, una ricerca smaniosa di tracce nelle vite di chi l’ha conosciuta, di chi l’ha amata, ma non ha saputo salvarne il ricordo.
Perché il testo femminile, come scoprirà l’autrice, è fatto di “straordinarie cancellazioni” e “ordinarie obliterazioni”: per imparare a riconoscere la presenza di una voce femminile bisogna imparare a scrutare le assenze, indagare le dimenticanze, scavare negli spazi vuoti, riassemblare le lacune. E qui entra in gioco la letteratura, come catalizzatrice di fantasmi e di desideri, una “bocca che contiene sia la verità che la bugia”.
L’eredità di Eibhlìn sono le sue parole, così potenti da avere l’effetto di un incantesimo, così vere da aver preso possesso della mente di una donna lontana secoli da lei. L’autrice raccoglie quest’eredità e le infonde vita: dove finisce la sua ricerca sulla vita di Eibhlìn, laddove le fonti, le lettere, le cronache e le biografie dei figli e dei nipoti non ne recano più la voce, inizia il racconto di Doireann. L’atto dello scrivere non è più un canto solitario, ma un terreno coltivato da una marea di mani, un tessuto di voci che rimbalzano di bocca in bocca.
Sofia Racco
Crediti foto: Il Saggiatore https://www.ilsaggiatore.com/libro/un-fantasma-in-gola
