Lo scorso 13 ottobre, al Campus Luigi Einaudi, è stato proiettato il film “L’incorreggibile” del giovane regista Manuel Coser.
Il documentario racconta gli ultimi giorni e la scarcerazione di Alberto, ex criminale e rapinatore.
L’opera, affascinante e complessa, dà spunti di riflessione su numerosi temi che possono passare dal mondo carcerario al rapporto tra arte e società.
Per approfondire al meglio questi argomenti abbiamo fatto quattro chiacchiere direttamente con il regista.
Innanzitutto complimenti per il film e per essere riuscito a trattare una storia così complessa. Volevo iniziare proprio da questo e ti volevo chiedere come mai hai deciso di realizzare questo film? Perché proprio questa vicenda e come sei entrato a contatto con Alberto, ovvero il protagonista del tuo film?
Le due cose sono abbastanza congiunte. Sono entrato a contatto con Alberto perché seguivo il laboratorio teatrale fatto da Voci Erranti (http://vocierranti.org/). Mi ha contattato la regista della compagnia per chiedermi se volessi fare il video dello spettacolo ed io mi sono ingolosito dell’occasione di entrare con la telecamera in carcere e ho chiesto se avrei potuto riprendere anche le prove. Durante una di queste, ho avuto modo di parlare in modo più a lungo e compiutamente con alcuni degli attori-detenuti e uno di questi era proprio Alberto che mi ha raccontato degli episodi della sua vita carceraria. Il primo che mi ha raccontato è esattamente lo stesso episodio con cui si apre un romanzo di Edward Bunker che mi piace un sacco, non mi ricordo se sia “Cane mangia cane” o “Educazione di una canaglia”. Di fatto io ho una fascinazione per quell’autore e ritrovarmi davanti una persona che mi racconta di aver vissuto una scena identica a quella, che un po’ aveva lo stesso ambiente e lo stesso gusto o disgusto, mi ha catapultato un po’ dentro al libro nella realtà. Mi ha affascinato molto. In realtà non ho deciso di fare subito un film con lui, ma due anni dopo. Ho continuato a seguire la compagnia teatrale e fare video di altri spettacoli e questo tarlo, questa fascinazione, si è evoluta e dopo due anni ho capito che non potevo liberarmene se non mettendoci le mani dentro.
I motivi più profondi, oltre a quelli di fascinazione e corrispondenza con l’opera letteraria, è che essenzialmente da un lato mi faceva suonare delle cose per le quali mi sentivo affine – una sorta di ribellismo spontaneo, un non essere acquiescente né con la società né con sé stessi, il fatto di non cercare giustificazioni – dall’altro mi richiamava come una sorta di personaggio che poteva essere un po’ mitico per me. Al tempo stesso però lui smentiva tutti i motivi per cui per me poteva esserlo, li tradiva proprio. Non era un ribelle perché voleva cambiare il mondo, ma perché voleva avere dei soldi. Questa cosa mi metteva davanti a una situazione affascinante e contraddittoria. Ho pensato fosse interessante umanamente per me, e soprattutto mettendomi in gioco in un documentario, poteva esserlo filmicamente, perché non avrei potuto fare l’agiografia del criminale e al tempo stesso la condanna. Da questa equivocità ho pensato che poteva essere filmicamente interessante. Queste sono le ragioni un po’ più di pancia e un po’ più di testa.
Che rapporto c’è stato con la telecamera? Era un soggetto attivo? ha influenzato le scelte di Alberto e come si muoveva? Come si rapportava Alberto con la macchina da presa?
La camera è stato un elemento presente fin dalla concezione del film. Esso infatti è stato concepito come un esperimento in cui vedere cosa succede nel momento in cui la telecamera non si nasconde ma invece diventa palese per il pubblico e per il protagonista.
La telecamera è un oggetto un po’ strano e, se vuoi anche un po’ diabolico, perché è uno specchio che riflette due lati: chi sta davanti alla telecamera si sente in imbarazzo o è spinto a mettersi in scena e al tempo stesso, chi guarda questa rappresentazione, per forza rivede qualcosa di sé o qualcosa di diverso da sé. Quindi è uno specchio deformante che riflette in due direzioni. E’ strano perché genera un’immagine riflessa sia per chi ci sta davanti, sia per chi guarda quello che è stato impresso nella lente.
Il film è stato pensato e scritto in modo da tenere presente che la camera era mezzo di relazione: io ho conosciuto Alberto attraverso un’esperienza con la telecamera, per via del fatto che la usassi e che continuassi a tenerla in mezzo a noi tutto il tempo. Proprio perché non volevo nascondere e negare questa evidenza, che è un mezzo che mette in comunicazione e in relazione e allo stesso tempo però mette in relazione qualcosa di diverso rispetto all’animo intimo. Mette in comune soprattutto ciò che viene rappresentato, la rappresentazione che si ha di sé. Perciò è nato tutto il lavoro e il discorso sulla rappresentazione del ruolo, quindi sul camuffamento, sul ruolo del rapinatore di banca, perché è proprio lì il cuore del film.
Il fatto è che non si racconta la storia personale e la storia intima del personaggio, ma cosa succede a lui nel momento in cui si misura con il ruolo che ha avuto, con la rappresentazione che lui ha di sé e che la società ha delle persone come lui.
Più che altro è un gioco sul capire cosa conosciamo attraverso quello specchio strano, quello specchio bucato, deforme. E’ un film soprattutto su cosa c’è se c’è una telecamera in mezzo.
La telecamera ha un po’ seguito, cosa succedeva a Alberto, però al tempo stesso è stata posata in un modo da restituire al pubblico quella rappresentazione li.
La telecamera è un personaggio del film perché tutto ruota attorno alla rappresentazione che diamo di noi e cosa succede quando ci rappresentiamo in un modo piuttosto che in un altro, quindi è assolutamente un personaggio del film.
Diventa un punto di contatto?
Più che punto di contatto è il punto di riflessione, perché è uno specchio, è qualcosa che spinge alla riflessione. Da un lato crea delle immagini riflesse, in questo specchio, e da un altro le immagini spingono a riflettere su cosa succede.
Dal punto di vista stilistico, anche per questa questione della telecamera come soggetto attivo, il film mi ha ricordato in qualche misura Fritz Lang. Soprattutto per M il mostro di Dusseldorf.
Sì, è uno dei riferimenti. Abbiamo avuto 3 riferimenti filmici importanti. Uno è “M il mostro di Dusseldorf”, l’altro è “Pickpocket” di Bresson ( Da guardare assolutamente come “Un condannato a morte è fuggito” altro film di Bresson che parla sempre del mondo carcerario e di un evasione) e “L’avventura” di Antonioni.
Mi avevano affascinato le inquadrature sullo spazio vuoto in cui non compariva nessuno, o usciva solamente Alberto. Infatti, fino alla scena dell’orchestra non si era visto nessun altro personaggio in volto. Quella scena mi aveva colpito molto e volevo chiederti chi fossero i componenti dell’orchestra e come mai la scelta di quella musica e il perché delle dissolvenze incrociate.
Non ho voluto altre persone nel film se non quelle che tendenzialmente sono entrate: Ad un certo punto entra Biba che è la volontaria che lo aiuta, poi il funzionario dell’anagrafe e il Don. Sono pochi i personaggi che si vedono perché questo era funzionale alla questione della forza del personaggio e quindi al costruire con il corpo, con la figura di Alberto, non tanto una storia sulla sua vita ma sul suo personaggio, quindi dargli una presenza così importante non faceva equivocare la storia in altre direzioni.
Questo anche perché la vita di Alberto è una vita parecchio ingombrante quindi è anche giusto. Poi da qui la scelta del format 4:3 per portare anche al pubblico un’esperienza di una persona, di una personalità, di un personaggio, ingombrante che occupa tutto lo spazio. Nel 4:3 è difficile comporre delle immagini con persone che stiano nello stesso piano. Se ci sono più figure che rientrano devono per forza stare su piani diversi. Quindi questo era funzionale per riportare in modo immediato, tramite il linguaggio cinematografico, delle questioni che sono più di riflessione, di analisi, sul peso dell’esperienza di Alberto e del suo personaggio.
Il momento dell’orchestra sinfonica viene perché lui era nella scuola di alto perfezionamento musicale e la fortuna ha voluto che stessimo girando proprio nel momento in cui facevano il concerto di fine anno e lui dava una mano ad allestire, quindi lui era fisicamente li. L’orchestra è suggestiva di suo, in più pensavo potesse essere interessante ed utile dal punto di vista narrativo creare questa contrapposizione tra un insieme di persone che si coordinano per creare una sinfonia e lui solo, separato, che al massimo può star lì ad ascoltare e guardare, finché non deve rientrare. Lui assiste alle prove ma il concerto vero e proprio non lo può vedere.
Ho deciso di utilizzare le dissolvenze, la forma artificiosa e finzionale per eccellenza. per sottolineare questa sorta di concomitanza non comunicante. Per cui c’era il concerto, ma nel momento in cui c’è l’espressione concentrata della musica, lui sta camminando nel buio verso il carcere da solo. Quella poi è l’unico momento in cui si vede il carcere.
Questa per me è stata una scena particolare. Usare le dissolvenze (l’artificiosità più alta) all’interno del cinema documentario è stato utile al fine di rendere evidente il fatto che un racconto è sempre frutto di scelte e quindi è una costruzione. Per me, fare una cosa così finta era una dichiarazione di onestà.
Un’altra scena nella quale l’artificiosità del film viene presentata in modo così diretto è quando scompaiono i documenti che Alberto aveva posizionato nel pavimento della sua stanza.
Esattamente! Stessa logica. La logica è di riportare sul piano dell’artificialità qualcosa che è profondamente reale.
Una delle prime cose che lui mi ha fatto vedere erano proprio questi documenti: l’elenco dei 42 carceri nei quali è stato, le fotografie del suo arresto e gli articoli di giornale. Era qualcosa che per lui aveva una presenza importante nella definizione del suo personaggio.
Queste scelte di un linguaggio, che non è per niente documentaristico, sono state frutto di discussioni e riflessioni approfonditissime. Il fatto di stendere i documenti nella stanza era un modo per rendere evidente e di costringere lui a misurarsi nei confronti di questo suo profilo criminale.
Allora come fare a riportare questi discorsi su un piano dell’immagine? Con una scelta di regia forte e apparentemente sbagliata, per quanto riguarda il codice scelto del documentario, però molto più coerente con quello che invece era il mio pensiero.
Questi elementi di evidenza della finzione cinematografica, della messa in scena, mi hanno ricordato il genere del New Italian Epic. Un genere che parte dal racconto di storie vere, spesso anche fatti di cronaca, ma nel quale compaiono anche elementi di finzione che vengono esplicitati in modo diretto. Tu ti ritrovi in questa definizione ampia del New Italian Epic?
Sì, io poi ho una formazione letteraria. Ho fatto lettere moderne è ho fatto proprio una tesi sul confronto degli statuto della storiografia e il romanzo fantastico popolare con due scrittori. Una comparazione tra uno scrittore sardo Sergio Atzeni e uno peruviano Manuel Scorza. Entrambi hanno riscritto i miti fondativi dei propri popoli, Atzeni del popolo sardo e Scorza una tetralogia sulle rivolte contadine degli anni ‘60 in Perù, entrambi usando stilemi del fantastico, della leggenda.
Il mio fondamento quindi è quello. Questo mio lavoro e gli altri a cui ho lavorato cercano di stare a sviluppare questa linea di riflessione tra vero e verosimile. Quanto una leggenda può essere più rispondente al vero che alla verità? La storiografia è scritta da chi ha vinto, mentre la storia e le leggende raccontano la stessa storia dal punto di vista di chi l’ha persa. La finzione e il fantastico diventano uno strumento di riscatto, per chi ha subito la narrazione della realtà.
Quindi si, mi ci ritrovo, anzi grazie sono particolarmente felice come accostamento.
Come ultima domanda le volevo chiedere: secondo te che ruolo ha l’arte in questi ambiti e cosa può fare?
Ahimè molto di più di quello che fa. Può fare tantissimo e credo che sia uno strumento di lotta politica essenziale.
L’arte può, non deve per forza, dimostrare che ci sono tanti modi di pensare, di intendere, di raccontarsi il passato, l’oggi e soprattutto il domani.
Alessandro Santoni
Crediti immagine in evidenza: Manuel Coser


