Il Bangladesh è in fermento

Il Bangladesh sta affrontando uno dei periodi più movimentati della sua storia, iniziata quando ha ottenuto l’indipendenza dal Pakistan, nel 1971. Ormai da mesi migliaia di persone stanno manifestando per le strade, unite contro il governo dell’attuale prima ministra Sheikh Hasina. Ma quali sono le ragioni che continuano ad alimentare le proteste, puntualmente represse con violenza dalle forze di polizia?

Innanzitutto la trasformazione che il paese ha vissuto negli ultimi anni. L’ Awami League, il partito di Sheikh Hasina, è al governo da ben tre mandati consecutivi, ed è il favorito anche nelle elezioni che si terranno il 7 gennaio 2024. Il cambiamento in atto è piuttosto evidente, e lo segnala chiaramente anche Freedom House, uno dei think tank più autorevoli a livello internazionale sul tema di democraticità e libertà degli stati: nel suo report del 2023 testimonia infatti che il Bangladesh è parzialmente libero, in quanto sia i diritti politici sia le libertà civili sono stati danneggiati dal governo. Solo nelle ultime settimane sono state arrestate oltre diecimila persone che manifestavano contro Sheikh Hasina, negli scontri con le forze dell’ordine si contano non solo centinaia di feriti, ma anche almeno 10 morti, tra cui Shamim Molla, il leader dell’ala giovanile del principale partito d’opposizione. Il Bangladesh Nationalist Party (BNP) ha quindi deciso di boicottare le elezioni di gennaio, perché ritiene che non siano né libere né lontanamente democratiche.

Crediti: Dw.com https://www.dw.com/en/bangladesh-anti-government-protests-turn-violent/a-67244838

I leader del BNP sono stati attaccati e arrestati numerose volte, impedendo di fatto all’opposizione di poter esercitare il proprio legittimo dissenso. Dai manifestanti è stato chiesto alla prima ministra di dimettersi per consentire a un’autorità neutrale di tenere le elezioni, in modo da rendere possibile un voto libero, ma questa non sembra un’opzione che verrà intrapresa dal governo. Alla luce dei fatti resta quindi impossibile il verificarsi di un ribaltamento della situazione politica attuale, con possibili conseguenze disastrose per l’intera area asiatica, già sufficientemente instabile.

Contemporaneamente alle proteste anti-governative, ci sono state anche grandi manifestazioni dei lavoratori del settore tessile, fondamentale per la nazione. Il Bangladesh è infatti il secondo produttore al mondo di vestiti dopo la Cina e conta 4,4 milioni di lavoratori per circa 3.500 fabbriche in questo ambito. L’industria è ulteriormente cresciuta nell’ultimo anno, portando nelle casse del paese 47 miliardi di dollari. La richiesta dei lavoratori è ben precisa: aumentare il salario minimo. I costi della vita sono cresciuti enormemente a seguito della pandemia e dell’inflazione, ma gli stipendi non sono stati adeguati, causando un equilibrio precario in bilico tra sopravvivenza e povertà. Dai 68 euro (8mila taka) del 2018 il governo ha aumentato il salario minimo a 106 euro (12.500 taka), ma è poco più della metà della cifra richiesta dai manifestanti, ovvero 193 euro (23mila taka). Uno studio indipendente del Bangladesh Institute for Labour Studies considera questa cifra quella minima per il mantenimento di una famiglia e la copertura delle spese di base, non si tratta quindi di rivendicazioni azzardate, ma giustificate dal bisogno di condurre una vita dignitosa. Reuters ha inoltre riportato che molti lavoratori sono stati licenziati dalle fabbriche dopo le manifestazioni, aumentando in questo modo il clima di insicurezza e legittimando la decisione del governo di non concedere ulteriori incrementi dei salari.

Crediti: Repubblica https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2023/11/04/news/bangladesh_violente_proteste_dei_lavoratori_nellindustria_tessile_chiuse_centinaia_di_fabbriche_non_ce_la_facciamo_con_-419559657/

Questa battaglia riguarda da vicino anche noi, perché la maggior parte dei vestiti che acquistiamo sono prodotti in Bangladesh, e i principali brand del settore sono silenti rispetto a questa situazione. Solo pochi hanno rilasciato generiche dichiarazioni e nessuno a parte Patagonia ha appoggiato esplicitamente l’aumento dei salari minimi a 193 euro al mese. Sembra banale a dirsi, ma la diminuzione dei prezzi per i consumatori contribuisce direttamente a determinare dei salari più bassi per i lavoratori. Finché le aziende del tessile non adegueranno i propri prezzi sarà pressoché inevitabile che le pessime condizioni lavorative rimangano tali. Si tratta sicuramente di un problema di tipo globale, che tocca quasi tutti; nonostante i prezzi siano aumentati, sia a causa degli strascichi legati alla pandemia, che a causa della conseguente inflazione senza precedenti e alle guerre in atto, i salari non hanno tenuto il passo.

Le rivendicazioni dei lavoratori bengalesi rappresentano il loro settore, ma non solo. Rappresentano una grossa fetta della popolazione globale che deve rincorrere un mondo completamente trasformato, in cui le diseguaglianze sembrano aumentare sempre di più. Sarà fondamentale capire come si evolverà la tragica situazione del paese dopo le elezioni parlamentari, ma purtroppo non sembra il caso di essere ottimisti.

Fabrizio Mogni

Crediti immagine in evidenza: Foto di Fajrul Falah da Pixabay

Un commento Aggiungi il tuo

Lascia un commento