“Arrival” di Villeneuve è uscito nel 2016 e si inserisce nel genere dei film di fantascienza, che subito rimandano a una serie di stereotipi immediati: astronavi misteriose, alieni di cui non si capiscono le intenzioni e l’umanità che si unisce per fronteggiare la minaccia esterna. Ma la particolarità di “Arrival” è che parte da un presupposto diverso, la teoria del linguaggio di Sapir-Whorf.
Rimane comunque un film di fantascienza: infatti, porta in scena le vicende di Louise Banks, linguista chiamata a tradurre i simboli sconosciuti con cui delle entità aliene appena arrivate sulla Terra si esprimono. Oltre alle vicende personali di Louise, il film è tutto incentrato sul tentativo di comunicazione con gli alieni, per capire i motivi del loro arrivo e le loro intenzioni. Quando la protagonista riesce finalmente a comprendere e utilizzare il linguaggio degli alieni, è come se sbloccasse un’intera “area” del suo cervello, prima inutilizzata. Questo le permette di immergersi completamente nel flusso del tempo, che per lei non è più scandito da passato, presente, futuro, ma è circolare: Louise riesce a vedere cosa le accadrà e anche cosa accadrà ai suoi cari, in particolare a sua figlia.
E qui entra in gioco la teoria di Sapir-Whorf, che afferma che il linguaggio è in grado di influenzare il modo in cui pensiamo. Da questa hanno origine in realtà due punti di vista, uno più estremo e l’altro più moderato: quello del determinismo linguistico, che sostiene che il modo in cui qualcuno pensa e vede il mondo è determinato dal linguaggio che parla, e quello del relativismo linguistico, che sostiene che il linguaggio influenzi solo relativamente i pensieri, non determinandoli del tutto. Parlando invece di determinismo linguistico, diversi esperimenti hanno già dimostrato che rimane soltanto un’ipotesi (banale esempio è il fatto che, seguendo questa idea, i bilingui avrebbero due visioni del mondo differenti a seconda della lingua che decidono di utilizzare), anche riguardo al relativismo ci sono diversi dubbi. Nel secondo caso si tratta di sfumature: ad esempio, è possibile che io non abbia la parola esatta per definire un certo tipo di blù, ma non vuol dire che non riesca a percepire il colore. Infatti, un concetto che in una lingua è riassunto in una parola, può essere spiegato in un’altra lingua con un giro di parole più ampio: non vuol dire che un determinato concetto non esista in una lingua soltanto perché non c’è una parola esatta per definirlo. Che, banalmente, è anche un po’ la differenza tra italiano e inglese: la prima è infatti una lingua più analitica, che spiega e si dilunga di più, mentre l’inglese è una lingua sintetica, che riesce a condensare e riassumere, e spesso succede che per espressioni che in inglese vengono riassunte in due parole, l’italiano ne utilizzi almeno il doppio. Il tema del relativismo linguistico e dell’intraducibilità delle lingue non va sopravvalutato, per quanto affascinante: ce lo spiegano bene le teorie di Moro, linguista e neuroscienziato, che parte dalle enunciazioni teoriche di Chomsky, filosofo e linguista nato a metà ‘900. Chomsky sostiene che gli esseri umani abbiano una capacità innata di apprendere un linguaggio, che siano in pratica dotati fin dalla nascita di una sorta di grammatica universale, che fa in modo che – inconsciamente – sappiano già come comunicare.
Laura Marchese
Fonte immagine in evidenza: https://www.today.it/film-serie-tv/schede/arrival.html
