Un passato ancora presente
In presenza di un malessere che si insinua tra le viscere di un popolo e permea il vissuto della società, il confine tra il normale e il patologico si rivela un territorio sfumato. Le categorie proprie dell’Occidente e della sua psicologia potrebbero perdere il proprio vigore di fronte a contesti storico-culturali connotati da esperienze che presentano una specificità imprescindibile.
L’Africa è stata segnata da un trauma collettivo profondo, da una sofferenza impressa in profondità e che non può non emergere. La schiavitù ha seminato il seme di un sospetto generalizzato verso l’altro, una sfiducia che si è tramandata attraverso i secoli. Nel Congo belga, ad esempio, i capi villaggio avevano il compito di selezionare le persone che sarebbero state deportate come schiavi.
Nel Gabon, intorno al 1848, alcuni cittadini avevano riferito ad alcuni insediamenti coloniali sulla costa che gli mpangwé, i quali erano considerati cannibali come altre popolazioni del Camerun e dell’Africa equatoriale, stavano scendendo verso sud dal cuore della foresta. Raul Belloni du Chaillu mette in luce un aspetto molto importante, ossia che nel diffondere questi racconti che sortivano l’effetto di terrorizzare gli europei, le popolazioni della costa perseguivano un interesse ben definito: avere un rapporto diretto con i gruppi dell’interno e mantenere il monopolio nella tratta degli schiavi e nel commercio dell’avorio. Risulta evidente il conflitto che segna la storia del continente, la responsabilità dei neri nella schiavitù di altri neri.
I coloni europei hanno attuato delle strategie disciplinari rivolte ad addomesticare, curare, rendere docile il corpo di coloro che volevano dominare. Uno dei dispositivi adoperati a tal fine era la diseguale accessibilità ai beni e alle opportunità. I benefici legati ad un’alimentazione più varia e alla disponibilità dei farmaci venivano concessi soltanto ai convertiti che frequentavano le missioni e i loro dispensari. Michel Foucault descrive il corpo docile come un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato. Lo sviluppo di questa docilità presuppone metodi che permettano il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, garantendo l’assoggettamento costante delle sue forze e imponendo un rapporto di docilità-utilità. Le forze dei corpi in termini economici di utilità accrescono mediante la disciplina, la quale al contempo diminuisce queste stesse forze in termini di obbedienza. In tal modo si verifica una dissociazione del potere del corpo: da una parte vi è una capacità che si cerca di aumentare e dall’altra si inverte la potenza che potrebbe risultarne.
Un fenomeno diffuso in molte comunità africane è la stregoneria, descritta da Roberto Beneduce come un gioco a somma zero e un parossismo della responsabilità: il successo di uno comporta l’insuccesso di un altro e si crea uno spazio in cui ogni evento ha un responsabile, eliminando così il caso. Per lo sguardo occidentale un contesto simile può apparire molto distante dalla propria società e cultura, ma è interessante osservare come in realtà si possano riscontrare dei meccanismi analoghi ad un’ideologia moderna. È possibile constatare ad esempio un risvolto economico: lo stregone è colui che raccoglie senza distribuire; da qui si può accostare l’accumulazione stregonesca e l’accumulazione capitalistica.
Gli oppressi, i colonizzati, sono riusciti a creare uno spazio di potere inalienabile attraverso la stregoneria. I colonizzatori europei, invece, hanno esercitato un controllo disciplinare sui corpi delle popolazioni locali, limitando l’accesso a beni e cure per mantenere il dominio. I bianchi non possono essere stregoni e vi sono delle malattie che non possono curare, di fronte alle quali sono impotenti. Non solo i bianchi non hanno alcun potere, ma i popoli in cui viene praticata la stregoneria sono consapevoli del fatto che difficilmente i bianchi possono capire le loro esperienze.
Nel libro Corpi e saperi indocili, Beneduce racconta che il procuratore di Sangmélima da lui intervistato era un giovane dallo spirito “moderno”; tuttavia, nel momento in cui venne approfondito l’argomento dei processi di stregoneria, non poté fare a meno di cambiare tono. Il procuratore riferì a Beneduce un aneddoto riguardante l’incontro avuto con un guaritore, che aveva provato a spiegargli la stregoneria del kon, il progressivo svuotamento delle risorse vitali della vittima. Il guaritore per la spiegazione aveva usato una papaia: la sua polpa è abbondante e matura, ma si tratta solo di apparenza. Analogamente, la vittima è inconsapevole, continua a vivere normalmente, ma è sempre più stanca e dentro è già vuota. In seguito, il guaritore gli ha chiesto di portare un coltello, ha aperto il frutto, lo stesso che pochi istanti prima era maturo e polposo, ma il procuratore si era trovato di fronte ad una papaia disseccata. Il procuratore, dopo aver narrato l’episodio, disse: “È difficile per voi bianchi capire, siete troppo cartesiani.”
Marina Palumbieri
