Cos’è l’Art Brut? – Alla scoperta dell’arte che sfidò i tabù

“La scienza, come la poesia, si sa che sta ad un passo dalla follia”1. Con questa semplice frase, tratta dal romanzo “La scomparsa di Majorana”, Sciascia accenna e ci introduce a un tema, un topos, altamente ricorrente nella storia artistica ed estetica occidentale, ovvero il rapporto tra arte e pazzia.

Il piccolo spiraglio apertoci dallo scrittore siciliano ci proietta su questo argomento ampissimo e che raggiunge uno dei suoi apici nel secolo scorso, quando fu coniato il concetto di Art Brut.

Quest’ultimo ebbe delle ripercussioni fondamentali su tutto il mondo artistico, sul modo in cui veniva viste la malattia mentale, sulla pratica dell’arte terapia, e accompagnò anche i percorsi di deistituzionalizzazione. Ma andiamo con ordine:

Cos’è l’Art Brut e quando nasce?

Ci troviamo alla fine della seconda guerra mondiale quando il pittore Jean Dubuffet, stufo di un mondo artistico statico e che non lo entusiasma più, decide di coniare il famoso termine. Con questo l’artista francese vuole indicare tutti quei prodotti artistici che si dissociano, appunto, da quell’arte “solita”, ovvero tutta quell’arte che forma il canone studiato nelle accademie e acclamato dalla critica.

Particolare di “Il Nuovo Mondo” scultura in ossa animali realizzata da Francesco Toris ricoverato presso il manicomio di Collegno.
Fonte MAET UniTo.

“Nell’arte ci sono (sempre e dovunque) due ordini. C’è l’arte solita (o colta) (o perfetta) (seguendo la moda del momento la si è battezzata arte classica, arte romantica, o barocca, o tutto quel che si vuole tanto è sempre la stessa cosa) e c’è (furtiva e selvatica come una cerva) l’arte che chiamiamo art brut.”2

Dubuffet non definisce, però, tutta l’arte non classica come Art Brut, ma solamente quelle opere che riescono a esperire il compito principale dell’arte che, secondo il pittore francese, sta nella “capacità di far da tramite all’espressione degli stati soggiacenti, dei livelli del profondo”3.
Seguendo il ragionamento del pittore, per riuscire al meglio in questa missione l’artista non dev’essere troppo oppresso e vincolato da canoni ed elementi esterni. Proprio per queste ragioni, gli studi di Dubuffet e del suo “Centro dell’Art Brut” si concentreranno principalmente su quegli artisti che, per ragioni varie e disparate, non sono o non possono essere influenzati dalla società, e che realizzano le loro opere non a scopo di lucro. 

I principali artisti di Art Brut studiati da Dubuffet, perciò, sono: bambini, reclusi e “alienati”. 

Carlo Zinelli Grande Cavallo stellato Alpino e scala rosa 1967

L’arte oltre la malattia.

È proprio con l’attenzione per quest’ultima categoria di emarginati che il concetto di Art Brut acquista una capitale ed essenziale importanza. 

La rivoluzione portata da Dubuffet è stata sicuramente fondamentale per il mondo artistico, ma il dedicare attenzione alle produzioni artistiche degli internati nei manicomi, all’inizio degli anni ‘50, era qualcosa di mai visto prima. Era un modo innovativo e diverso di concepire la malattia mentale e di avvicinarsi alle strutture manicomiali. Un modo di vedere i pazienti non più solamente come estranei a noi – da qui il termine “alienati” – ma come persone, capaci di cose straordinarie come la creazione artistica.

Dubuffet vuole rompere le barriere presenti tra il mondo dei “sani” e quello dei “folli”, come quelle che ci sono tra l’arte alta e l’arte bassa. Il pittore francese, in uno dei suoi scritti più famosi, si sbilancia completamente in questo senso: 

“I meccanismi psicologici da cui deriva ogni creazione artistica sono tali, almeno mi pare, che bisogna o classificarli tutti una volta per sempre come casi patologici considerando quindi l’artista senz’altro uno psicopatico oppure allargare la nostra concezione di quel che è sano e normale arretrando le frontiere sino a comprendere l’intera follia.”4

Le parole di Dubuffet diventano profetiche e avanguardistiche. L’artista e critico francese, attraverso l’elemento più universale che conosce, ovvero l’arte, rompe con la paura della follia, infrange il tabù della malattia mentale e lo riporta nello spettro del possibile umano. Un processo di cui si prenderà carico, decenni dopo lo psichiatra Franco Basaglia – sul quale potete trovare un nostro articolo – che nel 1979 dirà:

“Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione.”5

Foto della statua di Marco Cavallo

I processi che condussero alla rivoluzione basagliana, alla messa in discussione del concetto di “alienati”, ai moderni programmi di arte terapia che si svolgono ancora oggi nelle varie cliniche di assistenza territoriale, sono nati anche da questo: dalla curiosità di un uomo come Dubuffet, dalla sua passione per l’arte e dal suo fuoco che, assieme a quello di tanti e tante altri, è diventato essenziale per alimentare una rivoluzione. 

  1. Sciascia L., La scomparsa di Majorana, Milano, Adelphi Edizioni, 2024 ↩︎
  2. Dubuffet J., I Valori Selvaggi, Milano, Feltrinelli Editore, 1971 ↩︎
  3. ibidem ↩︎
  4. ibidem ↩︎
  5. http://www.archepsicologia.it/io-ho-detto-che-non-so-cosa-sia-la-follia-franco-basaglia/ ↩︎

Fonte immagine in copertina: https://www.fondazionecariverona.org/Nostri-progetti/zinelli-visione-continua-mn/

Alessandro Santoni

3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Avatar di luisa sax luisa sax ha detto:

    è in corso una mostra di Art Brut al MUDEC di Milano museo di via Tortona e dura fino a febbraio, in contemporanea una bella mostra di Nike deSaint Phalle in parte pure lei secondo me rientra nella definizione art brut

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    1. Avatar di Alessandro Santoni Alessandro Santoni ha detto:

      La ringrazio per la segnalazione! Sembra davvero molto interessante

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