“Fare schifo” è un dovere morale

Quante volte ci siamo riferiti alla nostra realtà quotidiana in termini di “produttività”, “spreco di tempo”, “rendimento” e altre espressioni mutuate dal linguaggio economico? Questa tendenza è indice del fatto che non soltanto la nostra vita lavorativa o universitaria, ma ormai anche quella privata, è soggetta alla logica dell’iperproduzione e dell’attività continua per il raggiungimento di un profitto irreale in termini di guadagno e considerazione sociale.

Secondo l’antico adagio attribuito a Benjamin Franklin, “il tempo è denaro” – principio divenuto pilastro del sistema produttivo capitalistico – il tempo va monetizzato, sfruttato al massimo: ogni secondo non speso in ottica di accumulazione è un secondo sprecato. Sentiamo il continuo ticchettio dell’orologio risuonarci nelle orecchie, come un monito che ci mette in guardia dallo scorrere dei giorni, mesi e anni, sbattendoci in faccia i traguardi che avremmo già dovuto raggiungere e che ancora sembrano lontani.

È in questo senso che “fare schifo” può diventare un nuovo “dovere morale”, per riprendere il titolo del singolo di Willie Peyote, pubblicato nel suo quinto album Pornostalgia (2022). Secondo il rapper torinese, questo imperativo 2.0 – pronunciato sul palco del concertone del Primo Maggio a Roma (2018) da Aimone Romizi, frontman dei Fast Animals and Slow Kids – risulta fondamentale in una società in cui ciò che conta è essere costantemente performanti, stare al passo, sperimentare: un incessante fare che finisce per logorarci e farci perdere il contatto con noi stessi. Fare schifo sembra, quindi, l’unica alternativa possibile per uscire da questa logica viziosa: una riappropriazione della peggior versione di noi stessi, dei momenti inutili, del tempo “perso”, degli imprevisti, dell’essere umani nel senso più autentico del termine.

Le nostre identità, infatti, paiono ormai essersi ridotte alla bidimensionalità dei social network, in cui dobbiamo dar sfoggio continuamente dei nostri “lati migliori”, in un’estetizzazione e omologazione della vita che ci fa perdere ogni contatto con la realtà e ogni desiderio di approfondimento. Siamo costantemente bombardati da stimoli esterni, indotti a osservare quotidianamente spaccati di vita di amici e conoscenti che fanno le attività più disparate e ci sentiamo a nostra volta in obbligo di condividere la nostra quotidianità con la community, per evitare di cadere nel dimenticatoio e continuare a sentirci parte dei vincenti.

Tra i più giovani, dopo l’avvento dei social network, una delle fobie più diffuse è in effetti la cosiddetta FOMO (Fear of Missing Out), acronimo inglese che sta a indicare il timore di rimanere esclusi da un evento sociale o di perdersi le ultime novità. Questo termine, introdotto per la prima volta da Patrick J. McGinnis, esprime la sensazione di ansia che ci attanaglia quando ci rendiamo conto di non riuscire a stare al passo con gli altri e con le loro esperienze. Tale fobia è direttamente collegata all’utilizzo dei social network e al fatto che questi ci permettono di osservare le vite degli altri 24 ore su 24, creando così una dinamica di dipendenza che conduce, da un lato, a provare un forte senso di inadeguatezza di fronte alla nostra incapacità di sperimentare tutte le opzioni a cui siamo esposti, e, dall’altro, a ostentare continuamente le nostre attività per rimanere parte del meccanismo e non sentirci esclusi. Per indicarne la pervasività, l’Enciclopedia Treccani definisce la FOMO come la “malattia del nostro secolo”: un secolo che pare imprigionato in un eterno presente, costantemente interconnesso ed esposto.

È proprio per ovviare a questa rincorsa alla perfezione e alla partecipazione continua che, per riprendere le parole di Willie Peyote, “fare schifo è una rivoluzione”, un’interruzione di questa “giostra” su cui siamo saliti e da cui sembra impossibile scendere. La soluzione sarebbe, quindi, quella di riconquistare il nostro lato peggiore per riappropriarci del nostro essere più autentico e più umano.

Benedetta Boffa

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