Fondato a Montréal nel 1989 dall’imprenditore Dov Charney e con sede principale a Los Angeles, American Apparel è stato un noto brand Made in USA, una “setta della moda” (come viene definito nel documentario Trainwreck: il culto di American Apparel) e un modello rivoluzionario che ha saputo influenzare un’intera generazione con la sua semplicità.
Ma come è passato dall’essere un fenomeno culturale globale al diventare un fallimento finanziario vero e proprio?
Estetica pulita e semplice; giovani donne e outsiders; capi basic, come felpe, calze, gonne e magliette a tinta unita; fotografie erotiche e produzioni interne. Questi erano soltanto alcuni degli elementi chiave di American Apparel, che nel 2006 arrivava a fatturare 260 milioni di dollari, con più di 250 store aperti in oltre 19 Paesi del mondo, tra cui l’Italia, con negozi sia a Milano che a Roma (chiusi definitivamente nel 2017).
I dipendenti venivano scelti dallo stesso fondatore, principalmente in base al loro aspetto fisico. Nel documentario da poco disponibile su Netflix, Il culto di American Apparel, un’ex dipendente spiega come si facevano colloqui anche a chi veniva colto a rubare capi d’abbigliamento. Le persone scelte, dunque, erano giovani donne e uomini senza esperienza nel settore, ma pieni di sogni e di ambizioni, tutti accomunati dalla voglia di diventare qualcuno, di essere capiti e ascoltati.
Molte delle foto delle campagne pubblicitarie venivano scattate dallo stesso Charney, che prendeva parte in svariate occasioni anche agli shooting. In queste foto, giovani ragazze seminude (anche se in alcune le modelle risultavano completamente nude tanto da essere state censurate nel Regno Unito), tra pose sensuali e sessualmente esplicite e scritte allusive, erano le protagoniste. Ma non solo: le testimonial erano molto spesso anche attrici, cantanti e porno-attrici conosciute. Ed è proprio qui che risiede uno dei tanti motivi del fallimento (se non il motivo principale) del brand: molte donne raccontano di essere state molestate, di essere state costrette a intrattenere rapporti sessuali con Charney e, addirittura, di essere state filmate di nascosto senza il loro consenso. Il clima che si respirava all’interno della stessa azienda era un mix di paura e tensione, anche tra gli stessi lavoratori. Il CEO aveva il pieno controllo su qualsiasi decisione: chi veniva assunto, chi veniva licenziato e chi veniva fotografato e questo, a molti, non andava bene. Da community si passava così a una concezione di potere unico.

Seppur amato dai giovani, ma anche dalle celebrità del calibro di Rihanna, di Britney Spears e Beyoncé (che era solita visitare i negozi in orari notturni), nel 2015 American Apparel dichiarò ufficialmente bancarotta, a seguito di scandali interni e licenziamenti di massa dei dipendenti, che avevano deciso di lasciarsi alle spalle quell’ambiente aziendale disumano e ipersessualizzato.
Nel 2014, Dov Charney venne allontanato dal consiglio di amministrazione e Paula Schneider prese il suo posto. Si direbbe un lieto fine, no?
Non proprio. Nel 2016, Charney rilanciò un nuovo brand (che di nuovo non ha nulla, se non metà del nome): Los Angeles Apparel, con gli stessi punti chiave dell’ex American Apparel. Non solo, lo stesso Charney, secondo fonti confermate, sembra aver collaborato, nella produzione e nello sviluppo di capi, con un altro brand controverso, Yeezy, nato nel 2015 dal rapper americano Kanye West, anch’egli sotto accusa per dichiarazioni antisemite e per molestie sessuali da parte di una sua ex assistente personale, Lauren Pisciotta.
Il nome di Dov Charney è solo uno dei tanti nomi di predatori sessuali che, ancora oggi, rimangono impuniti e continuano a lavorare guadagnando come se niente fosse. Il problema alla base sembra proprio essere sempre lo stesso: uomini con un potere immenso che non hanno paura di esercitarlo sugli altri, proprio perché sanno che non verranno mai puniti, che non verranno mai sconfitti. Ancora una volta, ci ritroviamo di fronte a una cultura che premia e consacra il carnefice e condanna le vittime, mettendole in dubbio e screditandole.
Perché, come afferma la nuova direttrice di marketing di American Apparel, che al giorno d’oggi vende esclusivamente online capi basics must-have:
“Quando guardo le foto d’archivio, rabbrividisco. Restiamo sexy, perché non c’è niente di male nell’essere sexy – è solo il modo in cui si crea il sexy che conta.”
– Sabrina Weber
Deborah Solinas
Fonte immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Flickr_-_infomatique_-_American_Apparel.jpg
