Da William Blake a Jim Morrison: Brown e Morrison

Ci siamo lasciati parlando del saggio in cui Aldous Huxley rifletteva sugli effetti della mescalina, intitolato The Doors of Perception (1954).

Giungiamo ora al 1959, appena cinque anni dopo la pubblicazione del libro di Huxley, quando Norman O. Brown (intellettuale e scrittore americano; 1913-2002) pubblica Life Against Death: The Psychoanalytical Meaning of History.

Il testo tratta di psicoanalisi, e nella fattispecie offre un’analisi radicale e critica dell’opera di Sigmund Freud. L’aspetto in assoluto più curioso sono le affinità che l’autore ha rintracciato tra questi e Blake: Brown nota in primis come la concezione freudiana dell’essenza umana sia sostanzialmente identica a quella di Blake, che sempre in The Marriage of Heaven and Hell scrive: «L’energia è l’unica forma di vita, e ci viene dal corpo… L’energia è delizia eterna». Freud, secondo Brown, non avrebbe fatto altro che riformulare in chiave più razionale ciò che il poeta aveva già espresso: entrambi, infatti, affermano (citando testualmente dal saggio di Brown) «che l’essenza ultima del nostro essere rimane nell’inconscio segretamente fedele al principio di piacere o, come dice Blake, di “delizia”».

In un altro passaggio di Life Against Death, Brown riporta un’ulteriore citazione di Blake, nuovamente tratta da The Marriage of Heaven and Hell, che recita: «L’esuberanza è bellezza… Il pozzo contiene, la fonte trabocca». Come è intuibile, l’ambito cui Brown vuole far riferimento citando questo verso è quello della sessualità (si tratta pur sempre di un saggio sulla psicanalisi freudiana), ma all’interno del nostro percorso tale citazione si inserisce come uno spunto di riflessione molto interessante: in un certo senso, infatti, potremmo affermare che questo verso sintetizzi alla perfezione il temperamento di Blake, esuberante, fuori dagli schemi, continuamente alla ricerca di libertà, a tratti eccessivo, nelle posizioni così come nelle azioni.

Otto anni più tardi, il 4 gennaio 1967, viene pubblicato l’album d’esordio di una band statunitense allora sconosciuta, ma destinata a entrare nella storia della musica: l’omonimo The Doors. Il disco, trainato da singoli di successo quali Light My Fire (considerato la canzone-manifesto della Summer of Love del ‘67), riscontrerà un notevole successo, grazie anche al carismatico e magnetico frontman: Jim Morrison (1943-1971).

Iscritto alla Facoltà di Cinematografia dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) già a partire dalla primavera del 1964, Morrison conduce una vita in stile bohémien. È un lettore accanito: divora gli scritti di Nietzsche, Rimbaud, Camus, degli scrittori della beat generation (Kerouac e Burroughs in testa) ma anche, caso vuole, proprio di Blake, Huxley e Brown.

In autunno, durante i corsi universitari, Morrison fa la conoscenza di Ray Manzarek, che nel luglio del 1965, sulla spiaggia di Venice Beach, gli propone di formare una band. Il nome del neonato gruppo, che vede lo stesso Manzarek alle tastiere, Robby Krieger alla chitarra, John Densmore alla batteria e Morrison alla voce, viene scelto proprio dal frontman, che omaggia chiaramente (e in egual misura) l’opera poetica di Blake e gli studi di Huxley. «Ci sono cose che si conoscono e altre che non si conoscono. Esiste il noto e l’ignoto, e in mezzo ci sono Le Porte (The Doors). I Doors sono i sacerdoti del regno dell’ignoto che interagisce con la realtà fisica, perché l’uomo non è soltanto spirito, ma anche sensualità. La sensualità e il male sono immagini molto attraenti, ma dobbiamo pensare a esse come alla pelle di un serpente di cui ci si libererà», dichiarerà il frontman. L’influenza di Blake è lampante.

La vita sregolata di Morrison, carica di eccessi e culminata con un’overdose, è sempre stata dedicata a oltrepassare i limiti, invitando anche agli altri a unirsi a lui, incoraggiandoli a superare le convenzioni sociali e le inibizioni personali per raggiungere una libertà incondizionata. Dopotutto, come scriveva Blake in The Marriage of Heaven and Hell, «La via dell’eccesso porta al palazzo della saggezza».

Sul palco, Morrison si cala nel ruolo di sciamano, ponendosi quale punto di contatto tra questa dimensione e un’altra, tra il mondo naturale e quello soprannaturale, trasformando i propri concerti in cerimonie, sedute spiritiche. Attraverso la voce, i gesti, le parole e le movenze, punta a trasportare il pubblico come in un rito iniziatico o estatico mediante i propri testi ricchi di simbolismi (magistralmente accompagnati dalle musiche di Manzarek, Krieger e Densmore).

La figura di Jim Morrison si colloca così al culmine di un percorso dalla struttura circolare, iniziato con la figura di un uomo, di un artista e poeta misterioso, controverso ed eccessivo, alla costante ricerca di libertà, e conclusosi con la figura di un altro uomo, di un artista e poeta altrettanto misterioso, controverso, eccessivo e votato alla stessa ricerca. Due personalità magnetiche, influenti, tormentate, che forse non riusciremo mai a comprendere davvero, troppo visionarie, “capaci di estasi ed affrante dalle miserie della vita” (F. Pivano).

Giovanni Musso

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