L’arte africana e il retaggio della politica coloniale: le origini di una questione aperta

L’interesse europeo per il patrimonio africano nacque alla fine dell’Ottocento a causa della logica coloniale allora diffusa. Nonostante una successiva valorizzazione etnografica e culturale, il passato persiste e i provenance studies non sono ancora abbastanza efficienti per sensibilizzare le istituzioni museali e gli operatori del settore.

I primi esemplari di art nègre furono introdotti probabilmente nei primi anni del Novecento tra gli artisti di Parigi, provocando un interesse che avrebbe cambiato le sorti delle Avanguardie europee. Questo processo non fu esente dalla retorica colonialistica, che aveva ritratto la società africana come degenere. Un’importante testimonianza di questa tendenza risiede nel disgusto che manifestarono i primi ad aver visto Les demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso. Nonostante sia ormai certo che l’opera non è frutto di citazioni dirette dell’arte tribale, al tempo costituì l’interpretazione del pittore delle nuove tendenze formalistiche legate al primitivismo. Lo stesso Picasso ricordò la visita al Musée d’Ethnographie du Trocadéro di Parigi (aperto nel 1882 e oggi Musée de l’Homme), quando il quadro era in lavorazione, dove rimase particolarmente colpito dagli oggetti accumulati in modo disordinato e, soprattutto, dalle maschere, che riteneva avessero una componente magica.

Sala dell’Oceania del Museo etnografico del Trocadéro, 1895 (https://books.openedition.org/cths/2714)

Il Musée d’Ethnographie du Trocadéro fu soltanto una delle numerose istituzioni museali nate alla fine dell’Ottocento per commemorare le conquiste nel continente africano. Un’altra esperienza discutibile fu quella del museo allestito in occasione dell’Esposizione Internazionale di Bruxelles nel 1897. Per volontà di Leopoldo II, nell’Africa Palace di Tervuren, distante qualche chilometro dalla capitale, venne istituita la sezione dedicata alle colonie. La volontà del sovrano era di utilizzare l’esposizione come un’arma di propaganda, capace di attrarre investitori per il progetto coloniale del Belgio. Oltre a oggetti etnografici, animali imbalsamati e prodotti di vario tipo, nel giardino era presente un villaggio con persone autoctone congolesi, di cui sette persero la vita durante la permanenza. L’anno successivo, dato che l’Africa Palace divenne troppo piccolo per ospitare i beni che venivano continuamente importanti dal Congo, l’esposizione temporanea divenne un museo permanente e iniziò il progetto di una nuova sede (oggi il Museo Reale dell’Africa Centrale).

Il problema di una prospettiva storica errata è da riconnettere anche all’idea di protezione del patrimonio culturale internazionale, spesso associata all’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. La nascita di quest’organo, infatti, fu il frutto di una prima grande campagna di salvaguardia portata avanti nel solco delle politiche colonialiste, che Europa e Stati Uniti continuavano a praticare ancora nel secondo dopoguerra.

Tra le prime attività dell’UNESCO, risaltò il caso dell’Egitto. Nel 1954, il Paese annunciò la costruzione di un’opera imponente, l’Alta Diga di Assuan, che richiedeva l’allagamento di una valle con diversi monumenti architettonici antichi e lo spostamento di 100.000 nubiani, costretti ad abbandonare le loro case. Cinque anni dopo, Egitto e Sudan chiesero assistenza all’UNESCO per la salvaguardia dei monumenti minacciati dalla costruzione della diga.

Sul sito dell’organizzazione, nella descrizione dell’intervento di portata storica, venne precisato l’Outstanding Universal Value del patrimonio che si trovava nella valle sul Nilo, sottolineando come i resti fossero stati riposizionati “grazie agli sforzi lodevoli e meticolosamente ponderati” che ne hanno “preservato il tessuto fisico, ma anche la loro integrità”, affermando, di fatto, una falsità storica sulla questione. I templi smontati e trasferiti furono ventitré, tra i quali il più famoso dedicato ad Abu Simbel. Dalle narrazioni ufficiali emerse un tentativo generoso di aiutare gli Stati in difficoltà, operando nello spirito della cooperazione internazionale. Tuttavia, si trattò di un atto di predominanza politico-culturale dello schieramento atlantico. L’intervento dell’UNESCO, infatti, prevedeva che la metà dei reperti messi in salvo fosse destinata ai musei di alcuni Paesi membri, favorendo una ricollocazione di interi templi in città come New York, Leiden, Madrid, Torino e Berlino Ovest.

Eppure, proprio in quegli anni, maturò una consapevolezza differente tra gli Stati del continente africano. Il 1960 è conosciuto come Year of Africa, grazie a diversi avvenimenti che portarono all’indipendenza di diciassette Paesi e il loro ingresso nelle Nazioni Unite. Dopo questa svolta, fu impensabile parlare di cultura nera senza affrontare il problema del colonialismo. Difatti, in questo periodo, emerse il dibattito sulla restituzione dei beni culturali. Nel 1965, la rivista mensile Bingo, prodotta tra Parigi e Dakar, pubblicò un articolo dal titolo “Give Us Back Negro Art”, dove il poeta Paulin Joachim lanciò il primo appello pubblico ai cittadini dei Paesi africani per recuperare le opere d’arte sparse in tutto il mondo.

Mappa della presenza di opere d’arte e oggetti africani nei musei dei diversi paesi del mondo (dal report Accumulation primitive. La géographie du patrimoine artistique africain dans le monde aujourd’hui, https://www.icmigrations.cnrs.fr/2021/01/06/defacto-024-04/)


Durante i decenni successivi, il dibattito portò ad alcuni risultati, ma un report pubblicato nel 2021 (Accumulation primitive. La géographie du patrimoine artistique africain dans le monde aujourd’hui) mostra quanto siano rimaste limitate le azioni di restituzione e decolonizzazione dei musei europei che detengono arte di origine africana. Il Museo di Tervuren detiene il primato con più di 180.000 pezzi, rendendo il Belgio il Paese con più arte africana al mondo. Gli altri maggiori possessori di arte tribale sono il Museo Etnologico di Berlino (75.000), il Musée du quai Branly di Parigi (circa 70.000) e il British Museum di Londra (69.000). I grandi musei pubblici di Parigi, Berlino, Londra, Bruxelles, Vienna, Amsterdam e Leida concentrano più di mezzo milione di pezzi africani. La storica dell’arte Bénédicte Savoy, autrice della ricerca, afferma:

“Comprendere l’eccesso di queste cifre e l’estensione dell’appropriazione con la forza è cogliere la violenza coloniale che fu all’opera per secoli”.


Nonostante l’impegno di ricercatori e studiosi nell’evidenziare i ritardi delle istituzioni in ottica post-coloniale, le attività dei musei e dei governi restano scarse e limitate.

Angelo Susino


FONTI

R. Harrison, Il patrimonio culturale. Un approccio critico, Milano, Pearson, 2020

F. Rovati, L’arte del primo Novecento, Torino, Einaudi, 2015

B. Savoy, Africa’s Struggle for Its Art. History of a Postcolonial Defeat, Oxford, Princeton University
Press, 2022

B. Savoy, Accumulation primitive. La géographie du patrimoine artistique africain dans le monde aujourd’hui, “De facto”, n. 24, 2021, pp. 40-48

https://whc.unesco.org/en/list/88/ (consultato in data 19/09/2025)

https://www.museedelhomme.fr/en/from-the-musee-d-ethnographie-to-the-musee-de-l-homme (consultato in data 19/09/2025)

https://www.africamuseum.be/en/discover/history?gad_source=1&gad_campaignid=2228182 (consultato in data 19/09/2025)

Crediti immagine: https://www.finarte.it/2021/09/arte-africana/

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