Quando conservare è danneggiare: la controversia delle aree protette

Quando si pensa alle aree protette ci vengono subito in mente immagini positive: fauna e flora tutelati dall’incuria e dall’impatto dell’uomo, luoghi splendidi e floridi di biodiversità in cui poter respirare ancora quell’aria incontaminata e in cui poter godere di una natura ancora “selvaggia”. Purtroppo non sempre è così: in molte parti del mondo le aree protette stanno diventando uno strumento di land grabbing (accaparramento di terre) per tutti coloro che hanno interesse ad appropriarsi di un territorio nel nome di una fantomatica “sostenibilità”, danneggiando poi non solo la natura stessa, invece di proteggerla, ma soprattutto le persone che quella natura la abitano e tutelano da molto più tempo. Un fenomeno che si configura non solo quindi come un degrado ambientale, ma soprattutto un processo neocoloniale.

Con il termine area protetta s’intende una porzione di terra o di acqua delimitata geograficamente con lo scopo di preservarne l’equilibrio ecologico, aumentandone o mantenendone la biodiversità: oggi al mondo ne esistono oltre 239.000 (più del 16% della superficie del pianeta). Ma da dove hanno origine? Ancora una volta la loro storia è intrisa di colonialismo e razzismo, poiché lo stesso ideale di area protetta si configura come un prodotto del tutto occidentale, che nasce da una concezione occidentale della natura: ovvero uno spazio vergine, incontaminato, definito “wilderness” da dover conservare nel suo essere selvaggio per essere goduto, ammirato, consumato come un prodotto per il suo valore estetico. Così nasce il modello ambientale della “conservazione-fortezza“: l’appropriazione di vaste aree di terra che vengono recintate, proprio come una fortezza, allo scopo di essere preservate.

Le prime aree protette nacquero proprio negli USA durante il XIX secolo: il parco nazionale più antico del mondo in tal senso è quello celebre di Yellowstone, la cui bellezza e maestosità è omaggiata da tutti, dimenticando però lo spargimento di sangue delle popolazioni native americane che la sua creazione ha causato. Cacciati con la forza (si parla di ben 300 persone appartenenti a varie tribù uccise) dal territorio che da secoli avevano imparato a vivere e plasmare con rispetto, si videro privati non solo della propria casa, ma anche di tutti quei legami culturali e spirituali che univano intrisecabilmente loro e la terra. Per i coloni americani gli indiani non erano altro che dei “selvaggi bracconieri” che danneggiavano il loro stesso habitat, perciò spettava loro proteggere quella natura in virtù di un’ideale superiore. Movente nobile, non fosse che si scontrò con una realtà del tutto incoerente, in quanto furono gli stessi coloni a costruire queste oasi di perfezione e bellezza per il loro svago personale, finendo pure col praticare la caccia all’interno di molte di esse.

Tribù amerinde che vivevano nei territori all’interno dell’attuale Parco Nazionale di Yellowstone
(Fonte: smithsonianmag.com)

Al giorno d’oggi parchi e aree protette sono sparse in tutto il globo; tuttavia, è soprattutto in Africa, e in buona parte del sud del mondo che queste diventano escamotage per appropriarsi di terra a danno delle popolazioni locali, poiché in tali paesi è più facile bypassare controlli e normative con stratagemmi burocratici. Bisogna inoltre precisare che esistono molti tipi di aree protette, che si differenziano in base al grado di restrizioni previste, sui diritti d’accesso e uso, così come le attività umane consentite al loro interno. Ma anche in tali limitazioni c’è discriminazione, in quanto esse finiscono nella maggior parte dei casi per inficiare le attività delle popolazioni locali e non quelle da cui le organizzazioni di conservazione traggono grande profitto. Tali parchi sono poi distribuiti in modo iniquo: le tipologie più rigide sono diffuse in Africa, mentre in Europa in molti casi è consentito ai residenti di continuare a vivere in esse. Ed è paradossale se pensiamo che è soprattutto in Africa che le persone che vivono questi luoghi dipendono fortemente da essi e dalle risorse che forniscono.

Ci troviamo di fronte quindi ad un’ assurda violazione dei diritti umani di innumerevoli popolazioni indigene sparse per il globo, sfrattate con la violenza, costrette ad abbandonare tutto senza soluzione alternativa, destinate alla povertà, alla fame, a diventare profughi senza una meta. I dati sono difficili da reperire, ma si stimano circa 14 milioni di persone derubate della loro terra per l’istituzione di aree protette. Ma la violenza non consiste solo nello sfratto: si parla di conservazione-fortezza perché queste aree vengono militarizzate come una fortezza. Talvolta le associazioni di conservazione si affidano a mercenari e servizi di sicurezza, molto spesso con un passato nell’esercito, addestrati alla violenza e senza un minimo di riguardo verso le popolazioni locali. Tanti sono stati i casi di aggressione, tortura, stupro, persino omicidio, mai chiariti del  tutto, a danno di coloro che hanno strenuamente lottato per rivendicare le loro terre, così come di coloro che semplicemente si ritrovavano in quei terreni: basti pensare che fino a poco tempo fa in molte aree protette dell’Africa vigeva la regola dello “sparare a vista”. Tali crimini rimangono impuniti, perché mancano le prove e perché gli stessi controlli sono obsoleti, o perchè è molto facile per le organizzaizoni di conservazione bollare questi indivdui come “bracconieri”. Un caso esemplare è quello degli abusi e delle violenze perpetrate nell’area di Messok Dja, nella foresta del bacino del Congo, dove il WWF intende istituire un’area protetta.

Boscimani vittime dei cirmini perpetrati dalle squadre anti- bracconaggio della Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Fonte: Survival International)

Al danno umano si aggiunge molto spesso quelle ambientale: area protetta non è automaticamente sinominmo di tutela ecologica. Ci sono molti casi in cui all’interno di tali parchi vengono effettuate attività che hanno ben poco di conservazionismo: estrazione mineraria o petrolifera, taglio del legno, caccia, o più semplicmente il turismo intensivo che, seppur legittimo, danneggia l’habitat e li equilibri che lo caratterizzano. Curioso notare invece come l’80% della biodesrivtà del pianeta sia localizzata proprio in quei luoghi in cui ancora oggi le comunità indigene possono vivere: è stato provato come gli effetti della vita umana di queste popolazioni apporti risultati di tutela e conservazionismo maggiori di qualsiasi area protetta sia sata istituita, e ad un costo pressochè nullo. Ciononostante le istituzioni governative e le organizzazioni di tutela ambientale, come lo IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) non sembrano accorgersi di questa evidenza, anzi vogliono aumentare il numero di aree protette, puntando a trasformare il 30% del pianeta in esse entro il 2030. Tale target, incluso nella “bozza-zero” del Quadro Globale per la Biodiversità (GBF) dovrebbe mitigare i cambiamenti climatici, ridurre la perdita della fauna selvatica e aumentare la biodiversità, ma se davvero si realizzasse, sarebbe il più grande accapparramento di terre nella storia; esso infatti non prevede misure effettive e vincolanti a protezione dei diritti, delle terre e dei mezzi di sussistenza dei popoli indigeni e delle altre comunità che dipendono dalla terra, violando le norme delle Nazioni Unite e la legge internazionale, e configurandosi come nuovo ed ennesimo potenziale rischio per milioni di persone.

Alla base di tutto questo c’è un’erronea quanto arrogante posizione della cultura occidentale rispetto alla natura: quella di considerarla qualcosa al di fuori di sè, separata, incontrollata, opposta alla razionalità dell’uomo e al suo progresso, e che deve essere quindi contenuta, circoscritta in uno spazio che è si ammirabile, ma distaccato da noi. Qualcosa del tutto opposto alla complementarità fra uomo e ambiente sviluppata da molti dei popoli indigeni, che tutt’oggi in parti così delicate e preziose del mondo, come l’Amazzonia, sono custodi e depositari di stili di vita e di un armonia che abbiamo perduto da tempo: un rispetto reciproco che non idealizza una natura perfetta e incotaminata, ma al contrario la modella anche, ma facendone parte. Ripensare il nostro rapporto con la natura e guardare a questi piccoli scorci di umanità forse può aiutarci a fare un passo indietro, e a riconsiderare cosa sia vera “tutela“.

Rachele Gatto

Fonte immagine in evidenza: focsiv.it

Fonte dati dell’articolo: Rapporto Focvis, I padroni della terra, 2021, curato da Andrea Stocchiero

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