Pochi giorni fa un neonato è stato lasciato nella culla per la vita del Policlinico di Milano, un luogo (sulla cui storia e sul cui nome torneremo) predisposto per permettere a chi ha avuto un figlio ma non desidera o non può allevarlo di rinunciare a farlo nel totale anonimato, ma al contempo garantendo la sicurezza del bambino.
Se, quindi, il luogo era sicuro, riscaldato, monitorato, perché i media italiani hanno parlato di abbandono? Il termine non solo implica una negatività dell’azione, colpevolizzando la persona responsabile, ma è anche scorretto: per la Treccani quando riferito a persone il verbo abbandonare prevede l’assenza di aiuto o protezione, e il procuratore per i minorenni di Milano, Ciro Cascone, in un’intervista a «Repubblica» ha sottolineato che il bambino non è stato esposto ad alcun rischio, e che per questo la donna che lo ha partorito non rischia alcuna conseguenza penale (il fatto, quindi, non costituisce il reato di abbandono di minore).
La notizia è stata diffusa in fretta, divulgando dettagli che viene da chiedersi se davvero rientrassero nel dovere di cronaca: il nome del bimbo, il suo colore di capelli, l’etnia presunta, il colore della coperta in cui era avvolto, il suo stato di salute, persino ampi stralci di una lettera che gli era stata lasciata accanto (a partire dai quali poi in diversi articoli sono comparse supposizioni di dubbio fondamento sull’età e sulla nazionalità di chi l’ha scritta).
E proprio da questa spettacolarizzazione di una storia nata in un contesto che dovrebbe tutelare privacy e anonimato ma al contempo dotata disgraziatamente di abbastanza potenziale emotivo da spingere chi si occupa di informazione a ignorarli è partita la marea di dichiarazioni, opinioni, offerte di aiuto economico che, manipolando a proprio piacimento le poche informazioni a disposizione, ha permeato gli spazi mediatici nei giorni immediatamente successivi a Pasqua.
Il primario di neonatologia del Policlinico, Fabio Mosca, in diverse dichiarazioni ha invitato chi ha lasciato il bambino a ripensarci e a tornare a riprenderselo, suggerendo anche di chiedere supporto ad associazioni come il Centro di aiuto alla vita presente all’ospedale – gestito dal Movimento per la vita, gruppo di ispirazione cattolica noto per le campagne contro l’aborto e per le promesse di aiuti economici alle donne che desiderano interrompere una gravidanza a patto che invece la portino a termine (aiuti economici che, solitamente, si interrompono dopo i primi mesi di vita del neonato).
L’appello di Mosca è stato ripreso tra gli altri da Ezio Greggio, che in un video postato sui social network ha promesso di “dare una mano” alla madre biologica del piccolo perché “avere un bambino è una grandissima fortuna”, e “non è giusto che (il neonato) sia abbandonato” poiché “si merita una mamma vera”.
Tralasciando le (ragionevolissime) contestazioni arrivate da genitori adottivi che non hanno apprezzato espressioni come “una mamma che poi dovrà occuparsene ma non è una mamma vera” questo appello racchiude in sé i problemi della narrazione mediatica di questa storia e di storie simili: la totale centralità data alla questione economica (senza che ci siano reali basi per presupporre che sia stata un fattore determinante), come se non potessero esistere altri motivi per non desiderare allevare un bambino che l’impossibilità materiale, il fatto che siano stati ignorati o considerati trascurabili sia il diritto all’autodeterminazione femminile sia quel diritto alla privacy e all’anonimato che è sempre fortemente sottolineato quando si parla delle culle della vita e della possibilità di partorire in ospedale e non riconoscere il neonato come di alternative all’aborto o all’abbandono (nel reale significato del termine).
I problemi relativi a questo caso sono in realtà più profondi, non dovuti solo al modo in cui è stato raccontato e al calvario mediatico a cui è stata sottoposta una donna colpevole di aver fatto una scelta libera e sicura, e si possono far risalire all’origine e agli obiettivi del sistema delle culle per la vita.
La prima di queste versioni moderne della ruota degli esposti è infatti stata installata nel 1992 a Casale Monferrato proprio dal Movimento per la Vita: ne sono seguite molte altre, gestite anche da altre associazioni, spesso non all’interno di luoghi legati alla sanità pubblica ma nelle sedi private di questi gruppi o in edifici appartenenti a comunità religiose. Attualmente in Italia sono circa 50, usate una manciata di volte.
Potrebbero essere uno strumento per ampliare la possibilità di scelta delle donne, accanto alla legge del 2000 che consente il parto in anonimato e quindi di lasciare legalmente un neonato in ospedale senza riconoscerlo, eppure chi se ne occupa agisce contemporaneamente per ridurla, dichiarando esplicitamente di voler favorire le adozioni a scapito degli aborti, entrando negli ospedali per cercare di convincere le donne a portare avanti le gravidanze in cambio di soldi, affermando di dover tutelare “quella moltitudine di bambini a cui è impedito di nascere in nome di falsi diritti e di una interpretazione corrotta della libertà”, come ha di recente fatto la presidente del Movimento per la Vita.
Virginia Platini
