«Il traduttore deve essere contemporaneamente traduttore, critico letterario e poeta: deve saper leggere l’originale abbastanza bene da comprendere i meccanismi in gioco, trasmetterne il significato quanto più accuratamente possibile, poi riorganizzare la traduzione di quel significato in una struttura che sia esteticamente gradevole nella lingua di arrivo e che, a suo giudizio, corrisponda a quella dell’originale. Se il poeta corre libero in un prato, il traduttore danza in catene.»
Quello del dark academia è un genere letterario e cinematografico che spesso si è soliti associare all’autunno: tazze bollenti di té o cioccolata, foglie che si tingono di rosso e arancione, passeggiate in un parco con il colletto del cappotto ben alzato, per schermarsi dai primi freddi.
È un po’ questa l’atmosfera che riproduce R. F. Kuang – già autrice della trilogia fantasy La Guerra dei Papaveri e di Yellowface – nell’ultimo libro edito da Mondadori, Babel – O la necessità della violenza.
Ma di che cosa parla questo libro che unisce i filoni del dark academia e del fantasy?
La recensione non contiene spoiler, ma vuole solamente indirizzare i curiosi a una lettura un po’ più critica di un libro che ha spopolato tra le librerie e che su booktook è diventato un vero e proprio caposaldo.

La trama
Inghilterra, 1830 circa.
Robin Swift – l’impacciato protagonista della Kuang che, per certi versi, ricorda il forse più conosciuto Richard Papen di Dio di Illusioni – è nato a Canton, in Cina, ma dopo la morte della sua intera famiglia per via di un’epidemia di colera viene portato a Londra da un illustre professore di Oxford.
La storia di Robin non è troppo dissimile da quella di molti altri coetanei che vengono strappati dalle rispettive patrie per convolare nel Regno Unito, in modo tale che il governo inglese possa sfruttare le loro conoscenze linguistiche e crescerli per diventare veri e propri accademici di Babel, l’istituto di traduzione più prestigioso al mondo, su cui si basa l’intero impero britannico.
Siamo nel bel mezzo della rivoluzione industriale, al picco dell’espansione colonialista inglese: la necessità di avere brillanti traduttori, interpreti e accademici è di vitale importanza, tanto che Babel è un vero e proprio paradiso per tutti gli aspiranti linguisti.
Robin, sotto l’occhio intransigente del suo tutore che ne segue la rigida educazione, conosce dunque il cantonese, il mandarino, l’inglese, ma anche il greco e il latino: è per questo viene accettato come studente a Babel e intraprende così, da giovanissimo, la sua carriera accademica. Non solo, il suo contributo agli studi è particolarmente importante, giacché sono in pochi a conoscere il mandarino. Da qui nasce un primo dissidio interiore, una lotta che animerà il protagonista per quasi tutto il resto del romanzo: perché Robin sa di essere stato strappato dalla propria famiglia e dalla propria patria, sa di essere sfruttato come vera e propria risorsa, sa che per quanto s’impegnerà a conformarsi rimarrà sempre agli occhi degli inglesi bianchi come un semplice straniero. E ciononostante, non può fare a meno di apprezzare gli studi delle lingue, i ritmi frenetici dell’istituto di Babel, il prestigio che divenire un accademico comporterebbe.
A condividere questo rapporto conflittuale con il sistema saranno i suoi compagni di corso, co-protagonisti del romanzo: Ramy, giovane indiano musulmano dalla parlata arguta e vivace, Victoire, figlia di una domestica di origini haitiane, dolce, comprensiva e diplomatica, e infine Letty, giovane dama inglese, figlia di un ammiraglio dell’esercito.
Il sistema magico
Ma la vera importanza di Babel risiede nella produzione di tavolette d’argento, che a loro volta s’avvalgono della magia.
Il sistema magico ideato dalla Kuang è, possibilmente, uno dei più originali, credibili e interessanti che siano stati proposti negli ultimi anni. Sulle tavolette vengono incise due parole in lingue diverse con etimologie simili ma non identiche: è proprio la leggera divergenza di significato a sprigionare un’energia magica che viene impiegata nei modi più disparati, ma soprattutto per potenziare l’effetto di tecnologie, mezzi di trasporto, armi, medicinali e così via…
Uno dei tanti esempi è una tavoletta usata nei ricchi giardini dell’aristocrazia inglese, la cui combinazione di vocaboli è quella di garden e il corrispettivo carattere mandarino, che significa anche «luogo di pace»; se apposta in un giardino, la tavoletta agisce ricreando un’atmosfera accogliente e raccolta.
Da un lato c’era scritto garden, dall’altro il
carattere in mandarino, che poteva indicare un giardino organizzato secondo un progetto ben preciso, ma più in generale evocava un luogo di raccoglimento
dove ritirarsi dal mondo, con accezioni di purificazione rituale, pulizia
interiore, opere caritatevoli e atti di penitenza ispirati al taoismo.
«L’idea è rendere i loro giardini luoghi più piacevoli e silenziosi di
quanto il baccano di Oxford possa consentire. Tenere la gentaglia alla larga.»
Ma le tavolette devono essere attivate da qualcuno che conosca bene entrambe le lingue, ed è qui che entrano in gioco Robin e tutti gli altri studenti e professori di Babel, tutti poliglotti e specializzati in idiomi differenti.
L’intuizione dell’autrice è pressoché geniale: il potere della parola non è solo una locuzione fine a sé stessa, è qualcosa di concreto e tangibile ed è alla base dell’intero impero britannico. R. F. Kuang, che è a sua volta traduttrice, non risparmia riflessioni sagaci e penetranti sul potere della traduzione:
«Il tradimento. Tradurre significa esercitare violenza
sull’originale, significa deformarlo e distorcerlo per occhi stranieri ai quali
non era rivolto. Quindi cosa ci rimane da dire? Come possiamo concludere,
se non ammettendo che ogni atto di traduzione è sempre e necessariamente
un atto di tradimento?
Lo stesso amore della Kuang per le lingue emerge in tutta la sua potenza sin dalla prima parte del libro: la scrittrice farcisce le pagine di esempi come quello del giardino, soffermandosi su etimologie, trasformazioni linguistiche, usi e costumi delle culture indissolubilmente legate alle parole incise sulle tavolette. Lo stile chiaro e scorrevole fa sì che le curiosità linguistiche risultino accessibili sia agli appassionati che ai neofiti della disciplina, senza escludere nessuno.
La riflessione anti-colonialista e anti-capitalista
Benché Babel racconti di un mondo parallelo ove la magia esiste per davvero, il libro riesce comunque a raccontare la Storia senza distorcerla o edulcorarla. Il sistema colonialista britannico sfrutta le risorse dei traduttori stranieri per imporre la propria influenza e per sfruttare i Paesi esteri, in particolari quelli dell’Oriente. India e Cina vengono, ad esempio, usate rispettivamente per coltivare e smerciare oppio, sfruttando e sottopagando la manodopera. I popoli colonizzati sono continuamente oggetto di vessi e pregiudizi, nonostante le loro risorse siano vitali per la sopravvivenza dell’impero inglese.
L’università ci ha strappato alle nostre case e ci ha fatto credere che il
nostro futuro sarebbe stato possibile solo al servizio della Corona. L’università ci racconta che siamo speciali, che siamo i prescelti, gli eletti, quando invece veniamo sottratti alla nostra terra e cresciuti a
ridosso di una classe di cui non possiamo mai veramente far parte.
L’università ci ha messo contro la nostra stessa gente, facendoci credere che le uniche nostre alternative fossero la complicità o la strada.
In tal senso la magia diventa la metafora per la tecnologia sempre più avanzata, la stessa che nella realtà ha permesso alle Nazioni occidentali di trarre un vantaggio economico e bellico sulle rispettive colonie.
I temi dell’anti-capitalismo e dell’anti-colonialismo, che toccano da vicino l’autrice di origini cinesi, vengono affrontati con maggior delicatezza nella prima parte del romanzo, mentre nella seconda – quando si entra nel vivo dell’azione – il romanzo prende una piega quasi didascalica, rimarcando quasi grossolanamente il perché lo sfruttamento incondizionato delle risorse di altri popoli sia un comportamento eticamente scorretto.
I punti deboli del libro
Se il sistema magico e l’approfondimento sulla linguistica sono due dei motivi per cui Babel splende, R. F. Kuang si dimostra ancora un’autrice piuttosto acerba – il che è tutto sommato comprensibile, considerata la giovanissima età di ventisette anni.
Nella sua ultima parte, il romanzo prende la piega di un opuscolo morale, sacrificando la tridimensionalità dei personaggi, che da caratteri ben costruiti diventano veicoli di idee politiche, quasi del tutto scevri della loro iniziale umanità.
Pur essendo in grado di emozionare e di suscitare una riflessione, sembra che la Kuang calchi troppo la mano nello spiegare – giustamente – perché il colonialismo sia un male da estirpare, ma il tono eccessivamente didattico e moraleggiante risulta eccessivo, come se il lettore avesse assoluto bisogno di una spiegazione limpida e ridondante.
Lo sviluppo dei personaggi, il cui arco di trasformazione talvolta si arresta bruscamente e talvolta addirittura regredisce, è forse la pecca maggiore del libro: il messaggio politico fagocita tutte le attenzioni dell’autrice che lascia alcune storyline incompiute, o solamente accennate, a discapito del lettore.
Leggere Babel merita?
Assolutamente sì: il romanzo non è perfetto e soffre di uno stile in certi punti piuttosto acerbo, e tuttavia il ritmo incalzante e le curiosità linguistiche e filologiche di cui è disseminato lo rendono una lettura che avvince e che accresce le conoscenze del lettore.
Scorrevole, gradevole, dalle atmosfere incantate, Babel è la lettura autunnale consigliata agli amanti dei dark academia, dei fantasy e, soprattutto, dei temi di traduzione e di comunicazione.
Rebecca Isabel Siri
crediti immagini: The Chicago Book Reviw, The British Library
