Lo scorso 12 ottobre, presso l’aula D1 del Campus Luigi Einaudi della nostra università, è stato presentato l’ultimo numero della rivista dell’Associazione Antigone. In particolare, il numero – curato dalle studiose Costanza Angella e Susanna Marietti e gratuitamente consultabile sul sito di Antigone – è il primo a parlare, analizzare e raccontare il mondo della detenzione femminile. Un mondo fin troppo dimenticato e abbandonato dai mass media nazionali e che meriterebbe sicuramente maggiori analisi e attenzione.

Per approfondire al meglio queste tematiche, abbiamo intervistato Claudio Sarzotti, docente di Sociologia dell’esecuzione penale, Sociologia del carcere e Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Torino:
Quest’anno Antigone ha pubblicato il “Primo Rapporto sulle donne detenute in carcere” e in seguito il primo numero della rivista dedicato alla detenzione femminile in carcere ovvero “L’esecuzione penale delle donne: temi, ricerche, prospettive”. Come prima domanda le volevo chiedere, come mai ci è voluto così tanto tempo per arrivare a queste pubblicazioni?
Innanzitutto, bisogna dire che il numero delle donne detenute è infinitamente più basso rispetto a quello della popolazione maschile, per esempio non c’è quel problema grosso che in Italia c’è da anni che è il sovrafollamento. Quindi un’associazione come Antigone, che si occupa del problema dei detenuti, chiaramente, in qualche misura, preferisce occuparsi prima delle cose più evidenti che vengono discusse anche di più sui media.
Non è un caso secondo me che questa attenzione sulla detenzione femminile sia avvenuta anche dopo la questione dei due suicidi avvenuti in stretta sequenza l’estate scorsa. Perché è chiaro che, pur con condizioni detentive migliori di quelle maschili, se 2/3 donne nell’arco di qualche settimana si suicidano è una cosa inquietante. Questo vuol dire che c’era un disagio sommerso che non è stato colto e che poi è emerso in questa maniera drammatica. Quindi, possiamo dire che le condizioni detentive siano sicuramente migliori di quelle degli uomini però questo non vuol dire che le donne detenute stiano bene.
Poi c’è anche il caso di quando ci sono bambini, perché possono esserci bambini in carcere, ma possono esserci anche bambini fuori dal carcere, è una scelta. Dopo una certa età devono necessariamente uscire dal carcere, mi sembra 6 anni. Vi lascio immaginare però cosa voglia dire per un bambino stare con la mamma fino a 6 anni e poi doverla lasciare. Tanto è vero che certe donne per evitare questo trauma cercano già di farlo uscire prima e staccarsi.
Anche se sono numeri ridotti, si tratta lo stesso di uno scandalo, perché anche se ci sono istituti come l’ICAM che hanno una progettazione per farli sembrare meno un carcere e più una casa, esistono sempre le sbarre e gli elementi che fanno ricordare che è un carcere come dicevano le donne nel video di Antigone. I bambini di 4 o 5 anni alla fine capiscono dove sono e non è fattibile…

Tornando al tema dei suicidi accennato da lei, nel report di Antigone veniva sottolineato il fatto che il tasso dei suicidi nelle carceri femminili, pur parlando di numeri molto inferiori a quelli maschili, sia in realtà più alto di quello relativo alle carceri maschili.
Si! Tenete presente però che quando stiamo parlando di numeri così bassi, se ragioniamo in percentuale, sembrano più rilevanti. Se abbiamo un campione di 4 persone una di esse è il 25%. Quindi quando i numeri sono così limitati non bisogna ragionare sulle percentuali. Poi dopo di che anche solo una persona che si suicida in carcere è inaccettabile.
La questione è che ce lo dicono tutte le analisi a livello nazionale e internazionale: in carcere ci si suicida di più di quanto non si faccia nella popolazione libera. Questo vuol dire che si creano le condizioni per cui certe persone fragili decidono di farla finita. C’è una specificità del contesto carcerario che facilita il suicidio. Ma facilita il suicidio addirittura per il personale degli agenti penitenziari, infatti, nei corpi di polizia, quelli che si suicidano di più sono loro. Questo vuol dire che in qualche misura le condizioni detentive sono pesanti sia per i detenuti ma anche per il personale. Tenete conto che certi agenti di polizia penitenziaria, che vengono chiamati “accasermati”, sono persone che dopo aver fatto 8 ore all’interno degli istituti, fanno 50 metri e vanno a dormire nella caserma davanti. Se andate alle Vallette vedrete che prima della struttura carceraria c’è una caserma di 10/12 piani molto simile a un carcere: lì dormono gli agenti accasermati che sono agenti che magari non risiedono a Torino e hanno la famiglia al sud che quindi quando vengono su stanno lì, e voi capite che è una condizione non facile. La condizione non è molto gratificante.
Ci può parlare meglio della detenzione femminile e degli spazi nei quali queste persone vivono, che spesso sono sottratti a istituti maschili?
Il modello architettonico del carcere è pensato per i maschi. Quindi nelle sessioni femminili poi ci si adatta, ma, ad esempio, magari non c’è un bidet, cose alle quali per la detenzione maschile si può rinunciare mentre per quella femminile un po’ meno.
Non esiste un modello normativo ad hoc per la detenzione femminile, il regolamento si applica in maniera indistinta anche alle femmine. Il 90 % della popolazione è composta da maschi e quindi hanno pensato tutto al maschile. Attenzione anche a non essenzializzare la differenza di genere, però certamente ci sono delle esigenze che differiscono.
Ovviamente ci sono anche tutta la difficoltà e le differenze dei detenuti transgender e degli omosessuali. L’omossesualità poi è considerata nella cultura carceraria qualcosa di indotto dalla carcerazione stessa, si parla quindi di omosessualità non per scelta ma per “necessità” diciamo e quindi la situazione oggi è molto difficile anche perché poi la cultura prevalente, nelle sezioni maschili, è ancora molto maschilista e dichiararsi omosessuali è dura.
Parlando delle opportunità che vengono concesse alle donne all’interno delle strutture, che tipo di lavori vengono dati?
Avendo anche lì stereotipi di qualche decina di anni fa, i lavori che vengono concessi sono strettamente manuali. Io quando ho visto il lavoro di mettere i pennarelli nell’astuccio, mi sono cadute le braccia. Mi ha ricordato alcune stampe ottocentesche, che ho utilizzato per allestire il Museo della memoria carceraria a Saluzzo, quindi proprio il senso di lavoro meramente manuale da catena di montaggio, veramente squalificante, dove vi lascio immaginare quale possa essere la qualificazione professionale. Però le detenute erano lo stesso contente perché riuscivano a ricavarne un minimo di sostentamento e comprarsi qualcosa di più al mercato o darlo alle famiglie fuori. Si arriva al paradosso che anche un lavoro del genere venga accettato.
Ovviamente il lavoro può diventare un importante fattore per contrastare la recidiva, ma se si viene scarcerati e non si ha nessun tipo di contatto, né famiglia, né amici e se non si hanno i mezzi per sostentarsi in maniera legale, se non si hanno appoggi, si tornerà a fare come facevo prima.
Come ultima domanda volevo parlare del suo contributo alla realizzazione della rivista, ovvero dell’analisi del caso storico di Beatrice Cenci. Come mai ha deciso di trattare proprio questa storia?
Il caso di Beatrice Cenci è una vicenda che è entrata nell’immaginario collettivo ed è interessante da molti punti di vista soprattutto su come il crimine sia qualcosa che da un lato ci spaventa e da un lato ci attrae. Si tratta di una ragazza che è stata abusata dal padre, e che a un certo punto decide di assoldare due persone per ucciderlo. Cercano di fare una messa in scena per far pensare che sia un incidente, ma poi si capisce subito che non è così e vengono condannati a morte lei (la figlia), la matrigna, seconda moglie del padre, e il fratello. La condanna a morte è la decapitazione, stiamo parlando della Roma rinascimentale della seconda metà del 1500 inizio 1600.

Sin da subito iniziano a circolare delle leggende sulla donna martire, ovvero sulla ragazza che è stata violata e abusata e in qualche modo si è difesa dal proprio padre. Quindi c’è questo duplice aspetto del carnefice, perché comunque parricida e vittima perché vittima abusata dal padre stesso. Tutto questo poi va avanti quattro secoli perché poi di Beatrice Cenci se ne interessato il cinema e diversi tipi di narrazione, fino ad arrivare appunto alla puntata della trasmissione di Purgatori su La7 che rievoca proprio l’esecuzione di Beatrice svoltasi naturalmente in piazza davanti a un folto pubblico.
A quanto pare nel pubblico c’era Caravaggio. Pare che si sia ispirato proprio a quella scena poi per realizzare il quadro di “Giuditta e Oloferne”. A sentire gli esperti l’opera è così realistica che può essere stata fatta solo da una persona che abbia assistito ad una decapitazione e che quindi potrebbe essere questa. E’ un soggetto che riprenderà anche Artemisia Gentileschi che, secondo le leggende, sarebbe stata presente anche lei assieme al padre Orazio Gentileschi.

Tra l’altro lato poi dietro la storia di Beatrice c’è una storia legata al Papa che aveva deciso di non graziarla per appropriarsi dei beni della famiglia che era molto facoltosa. Dietro questa esecuzione quindi c’è stata poi tutta una letteratura anticlericale.
Io ho scritto questa cosa sulla rivista dando un primo accenno ma ho intenzione di scrivere un libro su questa vicenda perché è molto interessante. Magari a Torino non si sente molto parlare di Beatrice ma a Roma ci vanno ancora sui luoghi e ci fanno i tour turistici e raccontano tutta la storia di Beatrice, è una vicenda che ha fatto epoca e che ha costruito una martire popolare.
Alessandro Santoni
Fonte immagine in evidenza: https://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/03-detenzione-femminile/
