La zona d’interesse: l’ordinarietà del male

Solo pochi film riescono a esprimere una costante tensione magnetica e disturbante senza mostrare nulla sullo schermo: La zona d’interesse è uno di questi.  

La quotidianità di una famiglia tedesca, composta da padre, madre e cinque figli. Abitano in una casa curata, con un grande giardino diviso in due parti; una comprende una piscina con scivolo per i bambini, l’altra delle aiuole piene di fiori colorati. La madre resta a casa a badare ai figli piccoli, mentre gli altri vanno a scuola. Il padre esce ogni mattina per andare a lavorare, salutando affettuosamente sua moglie prima di uscire. Niente di strano, sembrano solo frammenti fin troppo banali della vita di un’ordinaria famiglia borghese. Eppure, si percepisce una sorta di tensione, una deformazione della realtà a cui assistiamo. C’è un rumore costante, che non cessa quasi mai, lo si sente anche dentro casa; un brusio di fondo a cui nessun membro della famiglia sembra prestare attenzione. Poi l’inquadratura si allarga, rivelandoci la posizione della villetta.  

L’Interessengebiet era il nome tecnico che veniva usato dalle SS per definire la zona limitrofa al campo di concentramento di Auschwitz; quella casa apparteneva al comandante del campo, Rudolf Höß.  

L’intento del regista britannico Jonathan Glazer (Under the Skin) è quello di mostrare la parte della storia sulla disumanità nazista che è stata meno raccontata ma che è fondamentale per capire quello che è successo in quegli anni. Non a caso il film si apre solo con lo schermo nero e una musica distorta che aumenta pian piano i suoi rumori metallici, simile a dei lamenti umani. Vuole dirci immediatamente: non mostrerò la violenza, ma la percepirete, perché sapete cosa si trova al di là del muro.  

Indaga a fondo il punto di vista del carnefice (il comandante) ma anche chi gli sta vicino (la moglie e i figli), ovvero chi non ha attivamente partecipato alla brutale strage degli ebrei. O meglio, con la propria indifferenza ha sostenuto gli eccidi del nazionalsocialismo. Osservarli mentre chiacchierano con gli amici in quella situazione è straniante, così come la loro tranquillità è brutale quanto la violenza fisica delle SS. La fotografia è composta da inquadrature fisse, quasi sempre distanti, e da colori smorti, piatti. Perché il male è banale, non si nasconde in dei mostri inumani; raccontare i nazisti come degli esseri diversi da noi toglierebbe l’essenza del male, della violenza insensata.  

Per Höß il dubbio, o almeno il minimo sospetto, che ciò che sta facendo è qualcosa di disumano, non sembra affiorare mai. A rivoltarsi è solo il suo corpo, in una simbolica scena finale. 

Le poche scene che si svolgono al di fuori della zona d’interesse mostrano chiaramente il livello che aveva raggiunto la burocratizzazione dello sterminio. Le riunioni dei comandanti dei diversi campi di concentramento in cui si discute la logistica del trasporto di centinaia di migliaia di persone e della loro eliminazione più efficiente costituisce l’apogeo della macchina nazista. Tutto viene ridotto a una semplice procedura meccanica.  

Il sonoro è forse poi il vero protagonista del film (compresi i suoni gutturali delle scene a infrarossi). È l’elemento che ci fa rabbrividire, ci fa immaginare quello che noi e la famiglia di Höß non possiamo vedere.  Rappresenta alla perfezione l’indifferenza che dominava gran parte della società tedesca e non solo.

Alla fine del film ci si sente svuotati, la sala è ammutolita. Appena si esce dal cinema si prova una sensazione di spaesamento, di rigetto nei confronti del mondo. La zona d’interesse e la sua analisi della banalità del male verranno ricordati a lungo. 

Fabrizio Mogni

Crediti immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=145306065

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