Nel suo libro “Le lingue impossibili”, Andrea Moro parte dalla teoria di Chomsky e si occupa di definire cosa renda una lingua possibile, cioè adatta ad essere imparata e utilizzata. In primo luogo una lingua è definita possibile quando viene appresa da un bambino più o meno nello stesso periodo di tempo, indipendentemente da tutte le altre condizioni e in assenza di patologie. Questo significa che, al contrario di quanto sembra, tutte le lingue condividono una stessa struttura di base. La varietà apparentemente illimitata di combinazioni e di lingue differenti è in realtà molto limitata e Moro per spiegare questo punto analizza un aspetto del linguaggio in particolare: la sintassi. Le strutture sintattiche infatti, nonostante le differenze tra lingue e le variazioni, sono molto simili: combinando gli elementi e seguendo sempre le stesse regole in maniera ricorsiva il linguaggio genera un’infinità discreta. Ma il punto interessante è capire come mai, dato un numero limitato di parole, tra tutte le combinazioni possibili, soltanto poche vengono utilizzate. E questo contribuisce a dare un’altra definizione di lingua possibile: perché non tutte le combinazioni di parole sono accettabili? Perché acquisiamo e utilizziamo sempre lo stesso tipo di strutture e non altre? È come se ci fosse una sorta di “setaccio irragionevole”, di cui non siamo consapevoli, che tra tutte le potenziali combinazioni filtra soltanto quelle che hanno certi vincoli di configurazione.
Moro, grazie alla tecnica del neuroimaging, che misura l’attività cerebrale in determinate aree, svolge diversi esperimenti, che osservano le funzioni cerebrali al contatto con regole linguistiche possibili e impossibili. Nei due casi l’area di Broca -quella maggiormente attiva durante l’apprendimento e l’utilizzo del linguaggio- ha reagito in maniera differente, dimostrando che avere a che fare con strutture linguistiche basate sulla ricorsività è diverso che avere a che fare con strutture lineari. Oltre a questo, in un altro esperimento, la forma delle onde elettriche registrate nell’area di Broca (che è un’area che non ha niente a che fare con il suono) mentre venivano lette delle espressioni linguistiche in silenzio, è la stessa delle onde sonore che sarebbero state emesse se questa espressione fosse stata pronunciata. Questo dimostra che l’informazione acustica non viene aggiunta dopo, ma fa parte del codice fin dall’inizio, prima che il suono venga prodotto. Da qui Moro arriva a dimostrare che il linguaggio non è soltanto frutto di convenzioni arbitrarie e culturali, ma è vincolato a qualcosa di più profondo, che ha a che fare con i limiti strutturali del nostro cervello e che ci rende “biologicamente programmati” ad apprendere un linguaggio con determinate regole.
Questo è un grande punto di svolta per la linguistica moderna, che apre due questioni diverse: la prima è il fatto che in qualche modo i “confini di Babele” non esistano e che ci sia una base biologica e comune a tutti gli esseri umani; la seconda è il fatto che neanche sul modo stesso di esprimerci, che credevamo puramente limitato a influenze culturali, abbiamo di fatto totale controllo. Vengono utilizzate determinate strutture tra le molteplici che potrebbero esistere, perché per come siamo programmati quelle sono possibili e più semplici da apprendere. In un certo senso questo dà una grande limitazione a quello che si poteva pensare del linguaggio, qualcosa di puramente influenzato dalla società e dalla cultura, e che invece è incatenato a dei paletti che sono insiti e fissati dentro di noi, che vengono addirittura prima che noi sviluppiamo una coscienza per apprenderli e capirli. Come dice Moro alla fine, “Noi siamo parte dei dati”. E anche se impariamo una lingua nuova, totalmente diversa dalla nostra, non sblocchiamo una nuova area del cervello e non veniamo a conoscenza del nostro futuro come Louise in “Arrival”, purtroppo o per fortuna.
Laura Marchese
