Oltre la mia finestra c’era la Storia: intervista a una giovane dissidente bielorussa (parte II)

Link alla prima parte dell’intervista: https://thepasswordunito.wordpress.com/2024/07/09/oltre-la-mia-finestra-cera-la-storia-intervista-a-una-giovane-dissidente-bielorussa-parte-i/

Facciamo un passo indietro: quali sono stati i tuoi riferimenti culturali durante la crescita? Hai interagito con contenuti digitali prevalentemente bielorussi?

A dire il vero non so quanto io possa definirmi culturalmente “bielorussa”. Sono cresciuta ascoltando musica americana, guardando video e film anglofoni, il che mi è servito in prima battuta per imparare l’inglese. Dovete sapere che, per la maggior parte dei miei concittadini, essere percepiti come bielorussi è fonte di vergogna. Ci si vanta di essere russi o europei, ma non bielorussi.

Come descriveresti la tua famiglia?

La mia è una famiglia tipicamente “slava”: a Minsk abitavo con mia mamma, mio papà e mia nonna, una babushka cresciuta sotto l’Unione Sovietica, e con mio nonno, che ora non c’è più.

In famiglia parlavi bielorusso o russo?

Vi potrà sembrare un po’ strano, ma è quasi impossibile trovare famiglie bielorussofone in  Bielorussia e anche noi, in casa, parlavamo russo, non bielorusso.

Ho imparato il bielorusso a scuola, come seconda lingua madre, dopo il russo. Temo che la nostra sia una lingua a rischio estinzione… da quando Lukashenko è salito al governo, le politiche educative promosse dal regime hanno ridotto ai minimi termini le ore di insegnamento di bielorusso.

Com’è cambiata nel corso degli anni l’immagine che avevi della Russia?

Da bambina credevo nel sogno russo e mi vergognavo profondamente della mia identità bielorussa. Ricordo un grande sentimento di imbarazzo. Una volta, un mio amico, durante una passeggiata, ha indossato la vyšyvánka (вышыванка), una camicia bianca ricamata tipica della cultura bielorussa. Ero piccola, avevo undici anni, e non capivo quale fosse il bisogno dell’esporsi con un abito così caratterizzante.

Quando si è bambini non si hanno ancora gli strumenti per rimettere in questione le fondamenta della propria educazione, impartita in questo caso a reti unificate. Ci insegnavano che la Bielorussia, una periferia della grande Madre Russia, doveva essere fiera di condividere con il Cremlino la lingua e alcune tradizioni. Adesso, ovviamente, vedo le cose diversamente.

In quale misura la dittatura di Lukashenko pervadeva la tua vita quotidiana?

Vi racconto un aneddoto. Il mio ginnasio era seggio e capitava spesso di vedere i tabelloni elettorali affissi nei corridoi, nel periodo delle presidenziali. Su ogni tabellone era presente un pannello formato gigante raffigurante il volto Lukashenko, mentre le affiche degli altri candidati, dai nomi appena leggibili, erano minuscole. Perché andare a votare, mi chiedevo da bambina, se tanto Lukashenko doveva comunque essere rieletto presidente? “Democrazia”, “elezioni”, tutte parole che ai miei occhi non avevano alcun senso.

Verso i tredici anni, ho cominciato a capire come stavano le cose. Sono grata a Lukashenko per avermi insegnato suo malgrado cosa vuol dire usare lo spirito critico, guardare il mondo con una visione più ampia.

Crediti immagine: https://www.theguardian.com/world/2020/aug/20/belarus-opposition-faces-criminal-case-as-protests-continue

Sei mai stata in prigione per la tua partecipazione alle proteste?

Sono stata fermata dalla polizia, ma non sono mai andata in prigione. Molto spesso, sono riuscita a mettermi in salvo per pura fortuna. Una volta un poliziotto mi ha immobilizzata, mi ha tenuta stretta per il collo e mi ha sussurrato: “Corri”. Io ho corso e non mi sono voltata indietro. Un’altra volta io e un gruppo di amici siamo riusciti a chiudere il portone di casa mia prima che la polizia, che intanto aveva circondato l’edificio, potesse fermarci.

Un giorno, in seguito all’arresto di un mio professore, ho deciso di aderire a uno sciopero studentesco indetto davanti alla mia scuola. La direttrice del ginnasio, che ha collaborato con le forze dell’ordine, ha fornito i miei dati personali alle unità speciali dell’OMON. Da quel momento sono entrata a fare parte della cosiddetta black list dei “traditori della patria” e non mi è stato più consentito accedere all’edificio del ginnasio.

Hai mai avuto paura?

No, ho avuto molto più paura per il Covid che per gli scontri con la polizia. Manifestare mi sembrava una cosa così giusta e naturale: sentivo che, se non avessi aderito alla protesta, non me lo sarei mai perdonata.

I tuoi genitori sanno della tua partecipazione alle manifestazioni?

No, non lo sanno ancora adesso. Abbiamo posizioni politiche diverse, non farebbe facile parlarne.

Quando hai deciso di lasciare la Bielorussia per trasferirti in Francia?

Ho fatto domanda nel 2021 per entrare in un’università pubblica francese. Inizialmente i sensi di colpa erano forti, non volevo lasciare il mio paese e speravo, in cuor mio, di poter conseguire la mia laurea triennale in Bielorussia. Con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, il mio mondo si è distrutto e ho capito che restare in Bielorussia non sarebbe più stato possibile.

È stato psicologicamente difficile partire?

Sì, perché sapevo che avrei perso tutto, che la mia vita, così come l’avevo conosciuta, sarebbe crollata. Ero anche però consapevole del fatto che, da qualche parte nel mondo, avrei ritrovato me stessa. Non ho mai dubitato della mia scelta, è stato un dolore che ho dovuto attraversare.

Puoi ritornare in Bielorussia?

Ufficialmente sì, praticamente no. Alla frontiera, chi intende entrare nel territorio bielorusso deve passare di fronte a uno scanner facciale, che è direttamente collegato alla banca dati contenente le informazioni personali dei dissidenti che hanno partecipato alle manifestazioni del 2020 o che hanno scritto qualche commento al riguardo sui social. Io sono sulla black list dell’OMON, il rischio è che un bel giorno la polizia venga a prendermi a casa alle quattro di mattina e che mi porti in prigione. E, in questo caso, chissà che cosa ne sarebbe di me.

Crediti immagine: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Crisi-in-Bielorussia-reazioni-contrastate-nei-Balcani-204327

Pensi spesso a quello che hai vissuto in Bielorussia?

Sì, credo che l’identità bielorussa e il ricordo di ciò che ho vissuto siano qualcosa che porterò con me fino alla fine dei miei giorni. Non ci si può liberare del proprio passato, anche se la vita va avanti e cambia. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, le proteste del 2020 ritornano regolarmente nei miei sogni, che terminano quasi sempre con una morte violenta, la mia.

Chi sei tu per la Bielorussia oggi?

Io sono bielorussa (non francese), ma per il governo di Lukashenko non ho più legami con la mia terra natale, non merito questa nazionalità. Sorry not sorry Mr. Lukashenko! Quando scadrà la mia carta d’identità bielorussa (e cioè tra non molto), diventerò apolide. Se in Francia si imporranno le linee dell’estrema destra relativamente alle politiche di concessione della nazionalità agli stranieri, io sarò la prima a viverne le conseguenze, ovviamente in negativo.

Per salutare i nostri lettori italiani, ti andrebbe di condividere con noi un bel ricordo della tua infanzia in Bielorussia?

Certo. Forse il ricordo più bello che ho sono i regali che mi portava mio nonno, che ora non è più con noi, da Mosca. Era un uomo d’affari, viaggiava spesso per lavoro e tornava sempre con un pensierino per la nipotina. Ogni volta, quando arrivava a casa, era come se portasse con sé boccate d’aria fresca, odori di luoghi lontani. Mi sembrava di poter finalmente respirare. Grazie a lui, ho imparato a guardare il mondo con una mente aperta e libera.

Micol Cottino

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