Con l’arrivo dell’estate e delle vacanze si riapre la stagione della settimana al mare, weekend in montagna e delle gite fuori porta. Tra le mete più ambite, come ogni anno, abbiamo anche parchi divertimenti, giardini zoologici e parchi acquatici, tanto amati quanto criticati, attorno a queste strutture c’è un dibattito acceso e complesso che dura da anni. Cerchiamo di capire cosa ci sia di fondato, quali differenze ci siano tra le diverse strutture e come queste funzionino.
Quando parliamo di zoo ci riferiamo a strutture il cui obiettivo principale è la sola esposizione degli animali al pubblico. Nella maggior parte dei casi, in Europa, si parla più spesso di bioparchi, ovvero giardini zoologici il cui obiettivo è invece quello di preservare la conservazione delle specie animali e portare avanti progetti di salvaguardia e ricerca. Questi ultimi, infatti, fanno parte dell’ European Association of Zoos and Acquaria (EAZA) che si presenta come un’associazione nata per coordinare i rapporti tra bioparchi ed acquari europei e dell’asia occidentale per garantire non solo ottimali livelli di organizzazione delle strutture ma anche la salvaguardia di tutte le specie ed in particolare quelle a rischio.
Secondo questa descrizione i bioparchi dovrebbero essere in primis strutture di recupero e ricerca e soltanto secondariamente luoghi di esposizione. Basta però dare un semplice sguardo alla realtà per capire che le cose non sono così chiare e lineari come appaiono. In primis dobbiamo sottolineare come la maggior parte degli esemplari presenti nelle strutture arrivino da altri giardini zoologici, si tratta dunque di cuccioli nati in cattività. Se da un lato ciò significa che non vengono catturati esemplari in libertà, dall’altro vuol dire che il patrimonio genetico di queste specie è molto limitato, in quanto gli accoppiamenti avvengono tra poche decine di esemplari.
Quali conseguenze? Le conseguenze principali sono due: la prima è che la vita in cattività tende a reprimere parte degli istinti e dei comportamenti tipici della specie, quando questa si trova normalmente nel proprio habitat, il che può portare l’animale a sviluppare problematiche comportamentali anche nei confronti dei propri simili. La seconda è la questione dell’inbreeding: l’alto tasso di consanguineità degli esemplari li porta spesso a sviluppare malattie, il che li rende più vulnerabili e non adatti alla sopravvivenza in libertà rispetto ai loro consanguinei non in cattività.
L’altra grande questione che suscita spesso molte polemiche è quella degli spazi che zoo e bioparchi dedicano agli animali. Se è anche vero che nel corso degli anni le nostre strutture sono migliorate anni luce e sono sempre più moderne, allo stesso tempo, anche 400 mq di exibit per una tigre hanno la stessa dimensione di una scatola di cartone per un esemplare che un tempo ricopriva l’intero continente asiatico e che, ancora oggi, vive in territori da migliaia di chilometri. Senza tenere conto della differenza climatica, di vegetazione, flora e fauna tra l’habitat naturale dal quale proviene la specie e quello in cui vivono invece in cattività.
Non è poi inusuale che alcune strutture tengano i propri animali in condizioni ancora peggiori: spesso troviamo in prima pagina storie di abusi e sfruttamento all’interno dei parchi. Dalla chiusura del delfinario di Rimini, che ha visto condannati il direttore e la veterinaria della struttura a sei e quattro mesi di reclusione, alle irregolarità riscontrate a Zoomarine e Torvaianica che consentivano agli spettatori di nuotare con i delfini, pratica illegale dal 2019 grazie alla LAV.
Per quanto queste strutture possano sforzarsi di essere il più eticamente corrette possibili, più volte è stato dimostrato come la qualità di vita degli animali al loro interno sia davvero troppo bassa. Per quanto ci si impegni con lo spazio a loro concesso o un’alimentazione corretta, ci sono elementi fondamentali che, di fatto, sono mancanti in quanto non realizzabili. Inoltre, la presenza costante di centinaia di visitatori che ogni giorno osservano da vicino gli esemplari è una fonte di stress non indifferente che incide fortemente sulla salute degli stessi.
Possiamo allora individuare quali siano le soluzioni più eticamente corrette, che permettano la salvaguardia della specie, nonché lo svolgimento di progetti di ricerca e che, contemporaneamente, possano fornire agli esemplari un habitat adatto a soddisfare tutti I bisogni della specie? Ad oggi possiamo parlare di due soluzioni: le riserve naturali ed i santuari. Le riserve naturali, o più precisamente aree naturali protette, sono porzioni di territorio, anche marittimo, che vengono riconsciute e salvaguardate attraverso leggi nazionali per la presenza di specie animali o vegetali di rilevante importanza o a rischio di estinzione.
I santuari sono invece centri nei quali vengono accuditi e accolti animali in difficoltà, malati o che abbiamo subito maltrattamenti o sfruttamento, spesso si parla anche di esemplari salvati dal traffico illegale o dai circhi. In particolare in Italia I santuari si occupano di animali da reddito: dagli animali da cortile a quelli da pascolo e simili. Questo per poter garantire loro una vita dignitosa in mezzo alla natura, senza che questi debbano necessariamente ricambiare con qualcosa (latte, uova, carne). Molto conosciuti sono anche i santuari per gli elefanti in Thailandia, animali da sempre minacciati da bracconieri e sfruttati fino allo sfinimento per l’intrattenimento dei turisti.
In conclusione l’obiettivo principale sarebbe quello di arrivare ad avere soltanto strutture in cui le varie specie possano vivere il più possibile nel proprio habitat di appartenenza, protetti da leggi nazionali e associazioni animaliste serie, che abbiamo davvero a cuore la loro incolumità. Passare la vita in una scatola è un prezzo davvero troppo alto soltanto per sopravvive.
Alice Musto
