Alla scoperta del CUAMM: Il viaggio di Elena (pt.1)

Ci sono esperienze che cambiano radicalmente le nostre vite, in modi inaspettati. Esperienze che ci permettono di entrare in contatto con altre realtà, con altre culture e di crescere da un punto di vista professionale ma, soprattutto, umano.

Questa è la storia di Elena, pediatra, e della sua esperienza di volontariato in Africa con l’Associazione CUAMM

Nata nel 1950, il CUAMM Medici con l’Africa è la prima organizzazione italiana che si spende per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane.
Essa è presente in ben otto paesi dell’Africa subsahariana, ma non abbandona la sua presenza in Italia e nel resto d’Europa, dove continua un’attività di sensibilizzazione principalmente incentrata sulla salute materno-infantile, sulla nutrizione e sulle malattie infettive e croniche.
Inoltre, il CUAMM porta avanti progetti di ricerca e organizza corsi di formazione rivolti a studenti, professionisti sanitari e a chiunque intenda avvicinarsi al mondo della cooperazione internazionale, offrendo anche la possibilità di svolgere periodi di lavoro o tirocinio riconosciuto dalle università sul campo.

E qui arriviamo a Elena, che abbiamo avuto l’onore di conoscere e che ci ha gentilmente fatto scoprire questo mondo ricco di opportunità e ricchezza umana attraverso la sua storia e ciò che ha vissuto.

Ciao Elena! Noi vorremmo iniziare da una tua presentazione, per conoscerti meglio e capire di cosa ti occupi, e ovviamente sapere come hai conosciuto il CUAMM.

Io sono Elena Putoto, sono una specializzanda al termine del mio percorso di pediatria. Ho vissuto a Torino per 5 anni, ma ho studiato in altre città e sono di origini venete.

Per rispondere alla domanda su come io abbia conosciuto il CUAMM e come mai io sia partita, in realtà la mia storia inizia lontano, perché sono un po’ “figlia d’arte”.

Mio papà è medico, ha svolto gli studi a Padova e in quanto studente ha soggiornato al CUAMM che, se non so se sapete, nasce, tra le altre cose, come collegio universitario, e risulta ancora attivo con tale funzione a Padova.

I miei genitori, dopo che mio padre ha finito gli studi, hanno vissuto dieci anni complessivi in Africa, portando anche me e i miei fratelli; ho infatti vissuto con la mia famiglia per diversi anni in Uganda e in Ruanda.

Perciò il CUAMM è praticamente parte della mia famiglia: la decisione di partire è poi venuta un po’ da sé. Per com’è stato il mio percorso di studi, è sempre esistito un fil rouge con l’Africa e un legame diretto con quella terra.

Nel mio percorso ho perciò fatto varie esperienze, cercando di sfruttare fin dall’inizio tutte le possibilità che il CUAMM offriva: come per esempio un progetto in collaborazione con l’associazione studentesca che cura il Segretariato Italiano Studenti in Medicina (il SISM), dal nome Wolisso Project.

Wolisso è una città etiope dove è attivo un ospedale del CUAMM, una sede storica dove hanno iniziato ad  accogliere studenti universitari italiani per periodi di un mese.

Io non sono stata propriamente a Wolisso ma in Tanzania a Togawazanga, e dopo sono tornata per la tesi universitaria. Sono stata poi in Burkina Faso, a Ouagadougou

In seguito, da specializzanda, volevo fare un’esperienza all’estero e per me è stato quasi scontato tornare in Africa, ma questa volta con delle competenze in più in ambito lavorativo e non solo come studentessa. Anche se quando si parla di questo tipo di esperienze è sempre un punto di vista un po’ presuntuoso quello di dire “io vado lì e faccio qualcosa”, ma ti senti utile in qualche modo, ti senti una parte attiva.

Su cosa hai fatto la tesi?

La tesi che ho preparato per l’università era legata agli interventi svolti dall’ospedale San Camillo di Ouagadougou per ridurre la mortalità neonatale in un paese in via di sviluppo: lì era stata creata da po’ la nuova unità di neonatologia e quindi si voleva vedere se c’era stato nel tempo un cambiamento, un impatto sulla mortalità neonatale, grazie ai diversi tipi di interventi legati alle nuove infrastrutture, allo sviluppo di strumentazione e all’incremento del numero di sacche d’ossigeno presenti nell’ospedale, e capire se c’era stato un miglioramento.

Però il Burkina Faso è un paese complicato perché politicamente è molto instabile e periodicamente ci sono colpi di stato. Insomma, c’è questo fattore esterno che può inficiare molto l’assistenza sanitaria e che deve essere considerato anche in relazione alla valutazione dei dati. E’ stata quindi un’esperienza diversa dalle altre.

In concreto cos’hai fatto durante i tuoi viaggi? Raccontaci una tua giornata tipica laggiù.

Vi racconto dell’esperienza più recente a Chiulo, in Angola: è anche la più significativa sia dal punto di vista umano che lavorativo, un po’ più a tutto tondo rispetto alle precedenti, perché il periodo è stato più lungo. Ben sei mesi sul posto significa che devi ricreare un po’ una tua dimensione.  Questi sei mesi sono stati parte integrante del mio percorso di specialità, infatti non ho dovuto mettere in pausa la mia formazione, grazie agli accordi tra il CUAMM e le università, e grazie alla presenza di tutor che ti seguono durante il periodo.

Piccola divergenza: Chiulo è un villaggio rurale nel sud dell’Angola, piuttosto isolato, dove è presente appunto un ospedale sostenuto dal CUAMM che però è gestito al 100% da personale locale. Il CUAMM sostiene l’ospedale con la presenza di specialisti, quali una ginecologa e una pediatra, e la restante quota di personale medico e infermieristico che vi lavora è angolana. E’ un ospedale con risorse limitate, una bella sfida quotidiana, considerando quanti pazienti accoglie ogni giorno.

Parlando invece di una mia giornata tipo, essa iniziava prestissimo, in linea con gli orari africani. Quindi ci svegliamo tutti molto presto, si fa colazione a casa e poi alle 8 siamo in ospedale per la prima riunione, dove un responsabile fa un resoconto del turno delle ultime 24 ore, illustrando numero di accessi, numero di pazienti ricoverati nei diversi reparti, eventuali decessi, trasferimenti. Poi si partiva e si procedeva con le attività giornaliere da svolgere in ospedale. 

Io ero affiancata da una tutor, da una pediatra specializzata nel mio caso italiana, ma non è la regola, infatti puoi anche essere seguito da un tutor locale. Lei è stata fondamentale, mi ha aiutato a crescere tantissimo. Avevo anche dei medici locali con cui lavoravo insieme nel reparto di pediatria ed è stato un aspetto molto interessante anche quello chiaramente, considerando che è un contesto lavorativamente parlando più stressante e con meno risorse. 

La giornata poi si concludeva in modi differenti a seconda del tipo di turno che avevamo e delle mansioni che dovevamo svolgere quel giorno: se a noi toccava l’ambulatorio, si finiva verso le 2 e mezza, se invece avevamo la reperibilità sul pronto soccorso, quella durava 24 ore e quindi, una volta fatto il giro con i colleghi di tutti i pazienti ricoverati in pediatria e nel reparto di malnutrizione, si ritornava nell’unità di cure intensive, dove erano ricoverati i pazienti più gravi, che magari avevano bisogno di controlli più ravvicinati. Durante le 24 ore di guardia, oltre che per i pazienti già ricoverati, potevano chiamarci in reparti più complicati o per i cesarei, dove la presenza del pediatra era necessaria, o per pazienti che si presentavano in pronto soccorso dopo l’orario di chiusura dell’ambulatorio. C’era quindi la possibilità appunto che ci chiamassero in qualsiasi momento del giorno e della notte. Quando si dà questa reperibilità è molto impegnativo.

Poi alla sera solitamente io cercavo di decomprimere tutte le attività quotidiane più o meno stressanti, studiando un pochino nel pomeriggio, facendo i miei lavori per la tesi e poi andando a camminare, perché la città era abbastanza isolata e quindi non c’era la possibilità di dire “vado al bar” o “vado al cinema”. Quindi quello che facevo era soprattutto camminare. Mi mettevo il mio spray contro le zanzare, i miei pantaloni lunghi e le mie scarpette per farmi le mie passeggiate. Approfittavo di momenti come quelli per fare chiamate a casa, per sentirmi con gli amici, oppure camminavo, ascoltando audiolibri, podcast, ovvero le uniche cose che internet reggeva.

(Fine prima parte)

Rachele Gatto

Alessandro Santoni

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