Dire a qualcuno che è un “mito”, oggi, significa una cosa ben precisa. È un complimento, che indica una particolare abilità in qualcosa, oppure una personalità che colpisce, oppure è usato in senso ironico, se è riferito al compimento di un’azione bizzarra, fuori dall’ordinario. Il fatto che si utilizzi proprio l’espressione “sei un mito” non è un caso.
Perché l’“essere un mito” significa essere unici, ma anche universali; essere qualcosa da raccontare, qualcosa che in qualche modo esula dalla piattezza dell’ordinario, ma che allo stesso tempo riesce a spiegarlo e ad aggiungere nuove sfaccettature per comprenderlo.
Succede spesso che i miti abbiano dei riferimenti diretti alla realtà, oppure che diventino dei modi di dire o dei proverbi. Questo perché il mito non è un sistema chiuso, analizzabile soltanto in se stesso, ma è un sistema aperto, in continuo cambiamento, analizzabile dal punto di vista storico, situato nell’epoca e nella società da cui proviene, ma anche inevitabilmente, letto a posteriori, con significati diversi, che si intrecciano con l’epoca e la società in cui giunge.
Il mito si configura in una forma ambigua, fluida, adattabile continuamente. È così che ancora oggi si utilizza l’espressione “è un vaso di Pandora” quando si vuole indicare una situazione, un luogo, un oggetto che se scoperchiato porterà a un grande caos, come è successo nel mito di Pandora, che aprendo il vaso ha disperso tutti i mali nel mondo. Oppure quando si dice che “è il suo tallone d’Achille”, indicando il punto debole di una persona, in riferimento al mito in cui Achille viene sconfitto proprio perché colpito al tallone, l’unico punto del suo corpo a non essere stato immerso nello Stige, il fiume che rendeva immortali. Anche per quanto riguarda il mito di Atlante c’è un utilizzo più che mai contemporaneo e insito in noi. Si può infatti creare un parallelismo tra Atlante, che sorregge la volta celeste, e l’atlante, l’ultima vertebra della colonna vertebrale, che sorregge la testa, così che in questo caso il mito risulta addirittura “incorporato”.
Il tempo, nel caso del mito, scorre in maniera non lineare. Il mito appartiene al passato, giunge da altre epoche, spesso lontane, e arriva ad oggi, a un presente che è il nostro presente, ma che è anche futuro rispetto al passato da cui proviene. Si può dire che riesce a intersecare tutte e tre le dimensioni temporali, cambiando e adattandosi, ma allo stesso tempo rimanendo se stesso.
Questa sua atemporalità è possibile grazie al fatto che si basa su degli archetipi, su dei modelli primitivi che sembrano essere radicati in noi, nella nostra psiche, che permettono di interpretare e modellare la realtà e che allo stesso tempo sono essi stessi modellati dalla realtà.
È così che i miti diventano una griglia di lettura, un sistema di valori, momenti, gesti terribilmente umani, anche se spesso sono rappresentati tramite animali, alberi ed esseri non appartenenti alla realtà. Perché l’essere umano ha sempre e da sempre bisogno di interpretare: la realtà, gli spazi nascosti della realtà, le grandi domande cosmiche o magari le domande più piccole, quotidiane, come la spiegazione dell’origine di un nome, di un’usanza, di un albero. I miti permettono di indagare, si insinuano nelle pieghe più nascoste, scoperchiando, scoprendo, aggiungendo una luce nuova e particolare, intrecciandosi continuamente con la realtà, giocando sul rapporto realtà/immaginazione, realtà/irrealtà, originandosi dai sogni e originando sogni, immergendosi ed emergendo dalle profondità della psiche umana, come bisogno esistenziale, ontologico, legato alla condizione di essere umani.
In fin dei conti, si tratta sempre di storie. Si collegano a quella forma mentis che sembra essere proprio una specificità tutta umana: la capacità narrativa. Capacità che organizza, crea gerarchie e soprattutto dà un senso alla realtà che ci circonda, creando un universo di riferimenti condivisi, continuamente negoziabili, persuasivi e che contribuiscono a farci sentire parte di un “noi” che si estende nello spazio e nel tempo.
Laura Marchese
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