Lo scorso aprile è morto uno dei maggiori scrittori della letteratura statunitense contemporanea, Paul Auster, conosciuto per la sua opera poliedrica, che include romanzi come Trilogia di New York, Follie di Brooklyn, L’invenzione della solitudine, 4 3 2 1, il suo penultimo libro (2017), e Baumgartner (2023), il suo testamento spirituale. In particolare, 4 3 2 1 rappresenta quello che si potrebbe definire un romanzo-mondo, il grande romanzo americano, che raccontando le vicende dei personaggi racconta intere generazioni e attraversa decenni decisivi per la storia americana, dagli anni Quaranta agli anni Settanta del Novecento. Un libro-mondo anche per le dimensioni, 950 pagine, che pur racchiudendo al suo interno quattro possibili romanzi costituisce un’opera unitaria, e realizza una delle magie della letteratura: permettere di vivere più vite, di scoprire come una singola variabile possa cambiare la funzione della propria esistenza.
Il romanzo è infatti costruito con quattro narrazioni sovrapposte: i capitoli procedono per fasi, 1.1, 1.2…, 2.1, 2.2…, e sta al lettore decidere l’ordine di lettura, secondo l’ordine di stampa o secondo la storia (e quindi 1.1, 2.1, 3.1…), seguendo le quattro diverse traiettorie del destino del protagonista, Archibald Ferguson, figlio di immigrati ebrei polacchi di seconda generazione, figlio unico e con molto tempo libero in una New York turbolenta, in un clima da paura rossa, attraversata dalle manifestazioni pacifiste contro la guerra in Vietnam e da quelle per i diritti civili, per poi passare alle rivolte degli studenti nelle università, tutti eventi che si intersecano con la sua vita in modi inaspettati e a tratti comici.
Ogni storyline vede una diversa crescita del protagonista, diverse esperienze di socializzazione, diverse inclinazioni sessuali, ma delle fondamenta sempre uguali, un nucleo immutabile, fatto di passione per lo sport, per i libri, per la scrittura, di dedizione, di incertezze, di un mondo interiore ricco di dissidi. Una linea che incontra, in tutte e quattro le dimensioni possibili, due punti: Parigi e Amy Schneiderman, entrambi oggetto di canti d’amore memorabili.
Parigi era il film di Parigi, un mosaico di tutti i film di Parigi che Ferguson aveva visto, e com’era esaltante ritrovarsi nei luoghi reali, reali in tutta la loro sontuosa e stimolante realtà, e camminare con la sensazione che fossero anche luoghi immaginari, luoghi dentro la sua testa e fuori nell’aria che lo circondava, un simultaneo qui e ora, un passato in bianco e nero e un presente a colori […].
Sicuramente ogni lettore si affezionerà a uno dei quattro Archie, ma ogni storia è ugualmente avvincente: come quella di Archie n°1, sensibile studente universitario, aspirante giornalista, traduttore di poesie francesi a tempo perso, dal cuore spezzato dal suo primo grande amore. Un passaggio in particolare riassume alla perfezione quello stato di nostalgia e di disillusione spesso provato al termine del percorso di studi: «[…] gli sarebbe mancato il ragazzo speranzoso arrivato lì nell’autunno del 1965, il ragazzo che era lentamente svanito negli ultimi quattro anni e non sarebbe mai più stato ritrovato».
C’è poi Archie n°2, che fonda il proprio giornale all’età di undici anni, sperimenta il bullismo ma anche la sincerità dell’amicizia infantile e il cambiamento del proprio corpo nell’adolescenza: «l’orrore era trovarsi in balia di quello che gli stava accadendo, sentire che il suo corpo veniva trasformato nella sede di un esperimento condotto da uno scienziato folle e burlone».
Con Archie n°3 Auster riesce invece a descrivere con tatto e candore il non senso di una perdita, in passaggi che ricordano Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer. Qui la passione travolgente per il cinema e per la scrittura la fanno da padrone, con un’esatto resoconto dell’ambivalenza alla base della stesura di un libro.
[…]come se durante la stesura del libro fosse diventato paradossalmente una persona più calda e più fredda, più calda perché si era aperto e aveva mostrato le sue viscere al mondo, più fredda perché poteva guardare le sue viscere come se appartenessero a un altro […] e non sapeva dire se quella nuova relazione col suo io di scrittore fosse positiva o negativa, migliore o peggiore.
Ma al di là dell’audace esperimento narrativo e dell’intreccio avvincente, è anche lo stile a far avanzare voraci nella lettura: ricco, scorrevole, fatto di lunghe enumerazioni e subordinate, con un’aggettivazione esatta e realistica nella caratterizzazione dei personaggi e una straordinaria capacità di cogliere in poche righe la loro natura profonda. Con moltissime variazioni di tono, è una lingua intrisa di tenerezza, di umorismo, e di moltissimi riferimenti metaletterari, a film, libri, canzoni che hanno fatto un’epoca. Secondo alcuni forse troppo didascalico e esplicito in certi passaggi, ma sicuramente una penna abilissima, capace di raccontare l’amore, l’amicizia e i momenti di transizione della vita in modo schietto, profondo e vero.
Anna Gribaudo
Paul Auster, 4 3 2 1, trad. di Cristiana Mennella, Einaudi, Torino, 2017, p. 430, p. 865, p. 195, p. 605.
