Da Aristotele al kinning: ci siamo sempre visti nelle storie

Raccontare storie fa parte della natura umana.

Le storie, i romanzi, le poesie ci aiutano a costruire empatia, dicono molti studi, e sicuramente ci possono aiutare nei momenti più bui e difficili.

Tuttavia, la questione dello specchiarsi all’interno di una storia o di un personaggio è molto, molto antica.

Aristotele e la letteratura

Aristotele, una delle più grandi figure della Storia della filosofia occidentale, quando non era occupato a fondare la logica o a dare immensi contributi all’ontologia e alla metafisica ancora oggi tenuti in gran conto, era impegnato a catalogare le opere artistiche dell’epoca nel suo trattato La Poetica, dove compie una tassonomia del genere tragico ed epico. Ci sono stati vari dibattiti sull’esistenza di un secondo libro sulla commedia, ipoteticamente ritratto nel romanzo Il Nome della Rosa di Umberto Eco, ma la conclusione è che non sia mai stato scritto.

I concetti principali che vuole trasmettere sono quello di mimesi, ovvero di imitazione, e quello di catarsi, ovvero di purificazione. Aristotele spiega il primo termine innanzitutto da un punto di vista logico (tratta i sillogismi e la metafora, principalmente su un piano linguistico), per poi concentrarsi sul modo in cui l’imitazione della realtà da parte dello spettacolo sia essenziale per portare il pubblico prima all’immedesimazione nell’eroe tragico, poi all’azione, alla filantropia, grazie proprio all’esperienza estetica.

Ma la critica si è principalmente concentrata sul secondo concetto, sicuramente considerato più problematico: quello della catarsi. Significa letteralmente epurazione (viene usato in altri contesti dallo stesso Aristotele, in modo particolare per riferirsi al sangue mestruale) ed è un concetto senza dubbio controverso, poiché visto principalmente in ottica medica.

Le passioni più “negative” dell’uomo vanno purgate, come se fossero una febbre, e per questo le opere artistiche sono l’unica cura disponibile. La forma tragica suscita due emozioni, la pietà e la paura: tramite la prima, lo spettatore si connette empaticamente al protagonista, poi, tramite la seconda, purga le passioni più forti per la fine dell’opera.

Insomma, una visione clinica, medica, di quanto possa far bene la letteratura per la nostra empatia.

Letteratura e politica nella filosofia di Lukács

Nel corso della storia della critica letteraria ci sono state decisamente molte opinioni che hanno avuto come centro la ragione della letteratura, il perché ci piace così tanto leggere e immergerci in storie di pura finzione, e soprattutto quale fosse l’utilizzo migliore della letteratura.

Dall’utilizzo puramente morale della letteratura di Manzoni fino all’art for art’s sake di Oscar Wilde, di opinioni ce ne sono state molte, ma una delle più interessanti si può trovare nel filosofo e critico letterario marxista György Lukács. Questi, nei suoi ampi studi filosofici “applicati” ai campo della politica e dell’estetica, ha anche affrontato molte riflessioni sulla letteratura, in particolare sul rapporto che essa può avere non solo con la politica ma anche con la visione che la società ha di sé stessa.

In tutta la sua opera di critica politica, Lukács ha sempre professato la sua preferenza verso il genere realista rispetto a quello modernista. Nel 1937 pubblica in ungherese The Historical Novel, ovvero Il romanzo storico, in cui illustra come, dopo la rivoluzione francese, la società sia riuscita effettivamente a capire il mutare costante della Storia e il proprio ruolo in essa. Questo cambiamento è stato riflesso nei romanzi di Walter Scott, poiché lui ha mostrato i cambiamenti lungo il tempo avvenuti in epoche passate dal punto di vista della popolazione e perciò, secondo il filosofo, l’avrebbe aiutata a sviluppare una coscienza storica per attuare una rivoluzione.

E oggi?

Quindi, la letteratura può servire a purgare passioni e ad avere coscienza storica, ma negli ultimi tempi, su Internet, c’è un altro approccio all’immedesimazione che si sta recentemente sviluppando.

Il concetto di kinning deriva da forum online che discutevano di possibili teorie dei mondi infiniti, o mondi possibili, e si basa principalmente sul concetto di reincarnazione. Infatti, questo termine deriva da otherkin, il nome di una subcultura i cui membri si identificano come parzialmente o interamente non umani. Questa comunità ha dato varie spiegazioni: da quelle che si concentrano sull’aspetto più spirituale e metafisico, la teoria dei mondi infiniti appunto, a quelle che si concentrano sul concetto di reincarnazione e a quelle che invece danno spiegazioni più legate alla neurodivergenza o semplice bisogno di avere conforto. Infatti, nel corso degli anni, il concetto di otherkin è diventato sinonimo di kinning e viene adesso comunemente usato per descrivere il fatto di affezionarsi o vedersi in modo specifico in un personaggio fittizio, a causa di esperienze simili o tratti della personalità che possono combaciare.

Sole Dalmoro

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