Ha fatto il giro del mondo l’immagine del breve incontro informale tenutosi nei locali del Vaticano tra i due leader Donald Trump e Zelensky in occasione del funerale di Papa Francesco. Benché il Presidente statunitense abbia ribadito in questi giorni la prossimità di un accordo di pace duraturo tra la Russia e l’Ucraina, le principali agenzie di stampa mondiali sottolineano, al contrario, la lentezza e la precarietà dei negoziati, che sembrano procedere lungo due binari differenti.
Da un lato, la proposta di accordo presentata dal funzionario USA Steve Witkoff prevede ampie concessioni alla Russia, con il riconoscimento dei territori occupati dal 2022 e della Crimea, annessa da Putin nel 2014 con un’invasione militare e un referendum-farsa illegale; inoltre, la Casa Bianca ha esplicitato in una clausola l’impossibilità di entrare nella NATO per Kiev, una mossa che strizza l’occhio al Cremlino e che rischia di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale ucraina. Se quanto scrivono le docenti universitarie Maria Popova e Oxana Shevel in Russia and Ukraine: Entangled Histories, Diverging States è vero, la Russia, impegnata in un progetto di re-imperializzazione guidata da un dittatore revanscista, perseguirà gli obiettivi dell’operazione speciale con o senza la pace. Si noti che Putin nei suoi discorsi parla di “operazione speciale” e non di “guerra” non tanto per un senso di pudore, quanto piuttosto per sottolineare il mancato riconoscimento dell’Ucraina come Stato sovrano, ridotto, a livello linguistico, a una regione del territorio russo.
Gli Europei, invece, hanno redatto il 23 aprile un testo che stabilisce il rinvio di ogni discussione in merito al controllo territoriale alla fase successiva a un cessate il fuoco duraturo, maggiori garanzie di sicurezza e la revoca graduale e non immediata, come invece richiesto da Trump, delle sanzioni imposte ai russi dal 2014 ad oggi, a condizione del rispetto degli accordi di pace.

A proposito di pace, potrà sembrare paradossale, ma il telegramma più lungo di cordoglio per la morte di Papa Francesco, pacifista, è stato spedito da Kirill, il Patriarca di Mosca, noto sostenitore dell’occupazione russa e putiniano di ferro (Il Foglio). In un intervento del 21 aprile, ad appena un giorno dal decesso del Pontefice, il capo della Chiesa ortodossa ha raccontato Francesco come “un uomo dalle idee ferme” e che “non ha permesso al suo entourage di metterlo in contrasto con la Chiesa ortodossa russa” (Asia News).
Ha recentemente aggiunto lo ieromonaco Stefan Igumnov: “(Bergoglio, ndr) ha dimostrato che la Chiesa cattolica e quella russo-ortodossa possono dialogare, lavorare insieme e avere relazioni basate sulla fiducia, nonostante le condizioni esterne e le congiunture politiche”. Ricordiamo a tal proposito l’incontro storico tra Bergoglio e Kirill — il primo tra il vescovo di Roma e il Patriarca russo dallo scisma del 1054 — in una sala dell’Aeroporto internazionale José Martí a L’Avana nel 2016.
L’avvicinamento tra le due Chiese, frutto della politica di apertura del pontificato di Francesco, comunque critico nei confronti dell’invasione russa, può essere spiegato, secondo il professor Alberto Masoero, con la speranza da parte del Vaticano di portare la pace nel mondo mantenendo buoni rapporti con uomini di Chiesa di altre confessioni cristiane, i quali, per la loro dedizione alla causa di Dio, sono considerati come naturali argini al bellicismo. Questa è certo una nobile intenzione, ma il pericolo è che in nome del dialogo ci si dimentichi di chi veramente è Kirill: un pericoloso guerrafondaio, per troppo tempo considerato come un personaggio aperto al mondo occidentale.

ll Patriarca Kirill, ex agente del KGB noto col nome di Vladimir Michailovič Gundjaev, ha sostenuto fin da subito, col beneplacito di buona parte del clero ortodosso russo, il processo di autoritarizzazione del Cremlino, in nome di un’unione di intenti (usando la terminologia ortodossa, “sinfonia”) tra Stato e Chiesa, la quale si è realizzata nel programma illiberale, antioccidentale e conservatore del partito politico Russia Unita, guidato da Putin, leader definito dal Patriarca come “un miracolo di Dio”.
In una sorta di do ut des, lo Stato promuove sul suolo russo i valori della tradizione ortodossa e, a livello di politica estera, promette la “riconquista” dei territori di fede ortodossa ormai sfuggiti al controllo del patriarcato di Mosca, come ad esempio l’Ucraina; in cambio, la Chiesa crea le basi per un racconto messianico del conflitto contro Kiev, oggi dipinto nei toni come una vera e propria crociata verso la Terra Santa, alimentando così il consenso anche nelle regioni più lontane da Mosca. Per chi conosce un po’ di storia russa, sarà difficile non pensare al motto “autocrazia, ortodossia, nazionalità” — che fa chiaramente il verso al rivoluzionario “Liberté, égalité, fraternité” — coniato nel 1833 dal Ministro dell’Istruzione Sergej Uvarov sotto lo zar Nicola I: la fedeltà ai dettami della religione ortodossa, al Presidente (o allo zar) e alla patria russa sembrano essere, oggi come allora, i collanti della società auspicati dallo Stato.
La scelta del nuovo Pontefice sarà fondamentale per determinare il futuro dei rapporti tra le due Chiese e, indirettamente, per il mantenimento del soft power ortodosso nel mondo. L’Ucraina intanto piange le 34 vittime dell’attacco russo su Sumy del 13 aprile scorso, avvenuto proprio nel giorno della Domenica delle Palme, una festa in celebrazione della pace…
Gli occhi del Cremlino restano puntati sul Conclave.
Micol Cottino
Fonti:
https://www.eastjournal.net/archives/142677
https://www.eunews.it/2025/04/24/ucraina-negoziati-russia-usa-ue/
