Continuiamo a volerci magri

Spesso, quando siamo alle superiori, costantemente circondati da quella patina di malinconia e di turbamento tipica di ogni adolescente, vogliamo a tutti i costi essere più magri. A vent’anni, quando riprendiamo in mano le foto di quel periodo, ci rendiamo conto di quanto fossimo stupidi, e anzi vorremmo tornare ad avere il fisico di quando avevamo sedici anni. E a trenta? A cinquanta? Come cambierà ancora il rapporto con il nostro corpo? Forse, prima o poi, arriveremo alla tanto agognata accettazione?

Fa pensare, e forse anche un po’ arrabbiare, pensare a quanti sforzi ci sono voluti per arrivare dove siamo ora, con il movimento della body positivity, che tenta ogni giorno di normalizzare corpi più morbidi, formosi, con cellulite e smagliature. “Normalizzare” è un termine buffo da utilizzare, se consideriamo il fatto che questi corpi sono già, nel mondo reale, normali. Eppure, anni fa, nessuno si sarebbe mai sognato di fare una pubblicità di un costume da bagno con una modella di taglia L, figuriamoci di taglie superiori. Possiamo dire di aver fatto passi avanti per quanto riguarda la rappresentazione della diversità, una rappresentazione che forse, originariamente, spingeva a rimuovere totalmente un concetto di “standard estetico”.

E allora, perché ci convinciamo che quei due, tre, dieci chili in più siano quello che ci separa dalla felicità e dalla più totale autorealizzazione? “Quando li perderò, piacerò a quella persona”, “questo capo lo indosserò quando riuscirò a dimagrire”, “quando perderò peso, allora sì che….” Sembra quasi una maledizione che colpisce la nostra mente, che ci porta a credere di non essere mai abbastanza, facendoci anche provare in parte del senso di colpa: perché continuiamo a vederci male nel nostro corpo? Le ragioni di questo nostro malessere possono essere molteplici, ma quasi tutte hanno la medesima origine: l’iper rappresentazione dell’aspetto esteriore. Se è vero che stiamo procedendo verso una sempre più marcata inclusività, è pur vero che, se chiedessimo ai nostri nonni come si sentissero a proposito del loro aspetto fisico, le risposte sarebbero decisamente diverse: un tempo era importante che un corpo garantisse salute, forza e possibilità di lavorare. Certamente, era importante prendersene cura, ma non a scopi estetici.

La mercificazione del corpo, nata con l’avvento del cinema, della pubblicità e dei prodotti di bellezza, nel corso di questi anni non ha fatto altro che crescere ed evolversi in diverse forme. Ma promuovere un corpo sano è comunque pubblicità, dove la persona mostrata diventa in qualche modo un modello, un ideale estetico; di conseguenza, il problema non viene risolto, ma viene soltanto ampliata la gamma di ideali estetici a cui più persone possono ispirarsi. E poi, essere positivi nei confronti del nostro fisico non è affatto facile. “Amati”… e se non riesco ad amarmi? Diciamoci la verità, il discorso dell’accettazione dei corpi viene spesso portato avanti da persone oggettivamente attraenti e fotogeniche, i cui chili in più sono l’ultima delle cose che noti. “Ama il tuo corpo”, sì, ma tu sei di una bellezza disarmante, io no.

“Sono stanca di dire di no. Stanca di svegliarmi la mattina e ricordare ogni singola cosa che ho mangiato il giorno prima, contando ogni caloria consumata per sapere quanto disgusto portare con me sotto la doccia. […] Quindi ecco cosa farò: finirò questa pizza, poi andremo a vedere la partita di calcio, e domani andremo a comprare dei jeans più grandi” dice Julia Roberts, una delle attrici più belle, magre e amate di Hollywood, in una scena del film Eat, Pray, Love. In questo stesso periodo, Barbara Palvin, il cui girovita probabilmente non supera i 60 centimetri, diventa la prima “modella curvy” di Victoria’s Secret. E poi abbiamo The DUFF, l’ennesimo film nel quale la protagonista è considerata la più brutta e grassa del gruppo, ma le basta un rapido makeover per trasformarsi in una diva spaziale, ammirata da tutti, concludendo la sua storia con una pseudo morale che invita all’accettazione di sé.

Si potrebbe andare avanti all’infinito a elencare questi esempi di ipocrisia, i quali dimostrano come il concetto di inclusione dei corpi non conformi nel mondo della moda e della pubblicità si sia in poco tempo trasformato in una merce, un qualcosa su cui lucrare fino a quando se ne avrà opportunità. Ampliare i canoni estetici non significa porre fine all’insicurezza delle persone: finché esisteranno canoni, esisteranno i complessi. Julia Roberts si mangerà una pizza in pubblico per poi chiudersi in palestra una settimana per smaltire ogni singola caloria, mentre noi continueremo a guardare con severità ogni piccolo difetto del nostro corpo, tireremo indietro la pancia in spiaggia, non prenderemo il dolce se nessun altro al tavolo è intenzionato a ordinarlo.

Monica Poletti

Fonti:

https://www.greenme.it/lifestyle/costume-e-societa/body-positivity-perche-non-e-sempre-positiva/

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