Dopo due anni di guerra, Gaza è stremata. Le città sono ridotte in macerie, decine di migliaia di persone sono morte e nelle piazze di tutto il mondo manifestanti hanno espresso solidarietà alla Palestina, chiedendo la fine del conflitto, denunciando governi rimasti sordi e inerti. Poi, a fine settembre, con la teatralità che lo contraddistingue, Trump si è presentato come l’uomo della pace, il salvatore capace di mettere fine al conflitto israelo-palestinese.
Ma dietro gli applausi dei media occidentali e le dichiarazioni trionfali, cosa prevede davvero il suo piano di pace? È un accordo tra due popoli o un contratto commerciale? Una mossa mediatica più che umanitaria?
Il piano di pace
Il 29 settembre, quasi due anni dopo l’attacco al Nova Festival del 7 ottobre 2023, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato un piano di pace in 20 punti per porre fine al conflitto Israele-Hamas.
Sommariamente, il piano punta a una Gaza «deradicalizzata, libera dal terrorismo, che non rappresenta una minaccia per i suoi vicini»; una Gaza prospera, ricostruita grazie agli aiuti — e agli investimenti — internazionali e al Trump economic development plan: una Gaza democratica, sicura, occidentale, ma senza spazio per la reale autodeterminazione palestinese.
La prima fase, l’unica chiaramente definita nel documento, è iniziata dopo la firma del 9 ottobre: cessate il fuoco entro 24 ore, ritiro parziale dell’esercito, scambio di ostaggi e detenuti palestinesi — Hamas ha liberato i venti ostaggi israeliani ancora in vita e sta restituendo le salme di quelli defunti, mentre circa duemila detenuti palestinesi sono stati rilasciati. È stata concordata anche la riapertura del valico di Rafah, sotto una missione europea, consentendo l’ingresso di civili e aiuti umanitari.
È questa, finora, l’unica parte del piano effettivamente condivisa da Israele e Hamas.

https://www.worldpoliticsreview.com/israeli-palestinian-conflict-three-state-solution/
La seconda fase, quella della ricostruzione, e la terza, quella della restituzione del Paese a una forza politica palestinese, sono ancora da negoziare.
Secondo il documento americano, Gaza verrebbe amministrata da un comitato palestinese temporaneo tecnocratico e apolitico, sotto la supervisione di un Consiglio di pace internazionale guidato da Trump e da altri attori. Questo organo gestirebbe i fondi, la transizione e il percorso verso un futuro governo palestinese riformato (tale da favorire investimenti stranieri).
Hamas, invece, verrebbe esclusa da ogni forma di partecipazione alla governance, e le sue infrastrutture militari smantellate; Gaza verrebbe smilitarizzata e accompagnata in un buy-back programme, impegnandosi a una coesistenza pacifica con i suoi vicini. La sicurezza del territorio, in una prima fase, sarebbe affidata a una Forza internazionale di stabilizzazione (ISF), incaricata di mantenere l’ordine e addestrare la polizia locale, mentre le forze israeliane si ritirerebbero gradualmente — secondo tappe e tempistiche concordate tra l’IDF, l’ISF, i garanti e gli Stati Uniti.
Con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforme dell’Autorità palestinese potrebbero — forse — crearsi le condizioni per un percorso verso la creazione di uno Stato palestinese.
Un approccio coloniale a una pace parziale
Un piano controverso, che se da un lato offre la speranza di una tregua dopo due anni di sofferenze, dall’altro non sembra una soluzione duratura.
Innanzitutto, l’accordo parla di Gaza, di Hamas: pochi accenni alla Cisgiordania, alla Palestina e al suo popolo. È chiara la riluttanza politica nel nominare uno Stato che molte potenze globali ancora non riconoscono. Questo è un piano di pace che parte dal presupposto di non riconoscere una delle due parti in causa.
Mentre i leader europei si incontrano a Sharm-el-Sheikh per firmare “l’accordo di pace di Trump”, per discutere del futuro di Gaza e della composizione del board per la sua ricostruzione, risuona un passato coloniale di mandati: si parla di sostegno (condizionato) a un’autorità palestinese riformata, di garanzie democratiche per Gaza, mentre in Europa continua ad essere un tabù l’attacco alle navi della Global Sumud Flotilla. Emblematica in questo senso la proposta di nominare Tony Blair come vicecapo del Consiglio di pace per Gaza. Anche l’ISF richiama esperienze già viste in Medio Oriente, che ricordano più un’occupazione che una missione di stabilizzazione.
Dove è finito, allora, il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese? In questo spettacolare successo diplomatico, i grandi esclusi sono proprio loro. Il presidente egiziano al-Sisi ha richiamato questo principio e la libertà di vivere in uno Stato indipendente al fianco di Israele.

https://www.eunews.it/2025/10/13/i-leader-dei-paesi-occidentali-e-arabi-in-vetrina-a-sharm-el-sheikh-per-celebrare-laccordo-a-gaza/
Una pace o una resa?
Il piano di pace sembra individuare chiaramente un nemico e mirerebbe a neutralizzare, cancellare e ricostruire Gaza, da zero e secondo canoni precisi. Dopo oltre 60.000 vittime palestinesi e un territorio devastato, nel documento viene sottolineato più volte come Gaza (nella sua totalità) non dovrà più essere un pericolo per i suoi vicini. Nessuna condizione, invece, è posta all’altra parte del conflitto, Israele, che continua ad acquistare armi e a bombardare obiettivi in Libano, Iran, Qatar, Yemen. Pur essendo parte in causa, Israele mantiene ruoli importanti nel futuro di Gaza: tutti nomi dei passanti del valico di Rafah dovranno essere approvati, e il 53% della Striscia rimarrà sotto il suo controllo nella prima parte del piano. Al punto 16 del documento, inoltre, in un paradosso inquietante, si legge che Israele non occuperà o annetterà Gaza, come se fosse un’ipotesi legittima da chiarire.
Il piano di pace di Trump suona così più come una richiesta di resa, un ultimatum politico.
Trump stesso ha fissato scadenze molto strette per l’accettazione del piano, pena una tragica fine. Con condizioni così rigide, sarebbe facile trovare una giustificazione per la ripresa delle ostilità nel caso in cui Hamas non rispettasse gli impegni.
Israele resta infatti sul piede di guerra: il valico di Rafah è stato richiuso e gli aiuti umanitari fortemente ridotti a causa del ritardo nella restituzione delle salme degli ostaggi (alcune ancora intrappolate sotto le macerie), e il cessate il fuoco interrotto con l’attacco a obiettivi civili in Palestina da parte dell’IDF. Dopo le notizie sulle esecuzioni sommarie compiute da gruppi affiliati a Hamas sul territorio palestinese, Trump ha addirittura minacciato che, qualora Hamas continuasse a uccidere persone — un comportamento che non rientrava nell’accordo — «non avranno altra scelta che intervenire e eliminarli».
Non è pace quella che può finire da un momento all’altro, se è mai iniziata, considerate le tensioni degli ultimi giorni. Una pace non negoziabile, in cui il popolo palestinese resta escluso dalle decisioni, è un’occasione persa per dare alla Palestina una pace vera, un riconoscimento internazionale, un futuro condiviso e libero.
Quella di Trump è una tregua costruita su interessi economici, ambizioni personali e potere mediatico: una vittoria diplomatica di facciata che ignora la storia, la giustizia e la voce dei palestinesi.
Dietro gli applausi alla Knesset, resta una domanda: può esserci pace se una delle due parti è ancora invisibile?
Serena Savarese
