Questo articolo corrisponde alla seconda parte (compresa di spoiler) della recensione al film I Peccatori.
Come detto a conclusione della prima parte, ne I Peccatori si esplora il “potere comunitario” del blues (e della musica in generale). Essendo un genere musicale con alle spalle una lunga storia, quest’ultimo è stato lungamente studiato. Nonostante ciò, le teorie sulla sua origine sono maggiori in numero rispetto alle fonti certificate. Sappiamo per certo che questo genere musicale è nato dalle comunità afro-americane. Secondo molti storici della musica i ritmi e la musicalità che lo contraddistinguono deriverebbero proprio dai canti degli schiavi neri diffusi prima della guerra di secessione: si trattava di musiche che accompagnavano il lavoro nei campi, derivanti dai canti rituali che i primi schiavi avevano portato con sé dall’Africa, una su tutte la comunità Igbo.
Il blues — così come il jazz — viene appunto considerato il genere della black music per eccellenza. Molta della popular music che è arrivata fino a noi è nata e si è evoluta proprio grazie al contributo delle comunità afroamericane. Uno degli esempi più famosi è costituito dal rock n’ roll — che tra le altre cose affonda le proprie radici nel blues — la cui popolarizzazione è passata attraverso performer bianchi come Elvis Presley. Se vi interessa approfondire la questione, nuovamente connessa al già citato concetto di appropriazione culturale, potete recuperare un precedente articolo della nostra redattrice Chiara D’Amico, nel quale si analizza questa specifica dinamica. Tornando a noi, è importante riconoscere che gran parte della cultura americana (e ormai mondiale, data l’influenza dell’export culturale) proviene proprio dalle comunità afroamericane e che, spesso, si tende a insabbiare questo fatto. Non si parla di scambi culturali spontanei, ma piuttosto di plagi intellettuali non documentati, i cui meriti non sono mai stati riconosciuti. Questo meccanismo è così frequente nella storia della popular music da essere stato definito come “black innovation, white popularization”. In risposta a questo comportamento, molti intellettuali della cultura nera hanno cominciato a promuovere il concetto di gatekeeping, che ritengono necessario applicare per poter salvaguardare la propria identità.
I Peccatori risponde confermando quest’idea: per tutto il film il gatekeeping è visto come un atto di resistenza obbligatorio e, soprattutto, si fa di tutto perché non arrivi nelle mani di Remmick, che lo userebbe come metodo per aumentare la propria influenza. Il juke joint stesso può essere paragonato ad una forma di contenitore culturale dal quale uscire risulta pericoloso. In una scena che sia avvia verso quello che sarà il climax finale, Remmick cerca di convincere Sammie — che qui rappresenta proprio la musica blues in sé — a uscire dal locale e unirsi a lui, cosa che i sopravvissuti gli vietano di fare, in quanto consumerebbe la sua anima e lo renderebbe un’alterazione di se stesso. Remmick, a questo punto, rivela alla comunità una cruda verità: la segheria che hanno messo a nuovo è stata loro concessa da dei membri del Ku Klux Klan con lo scopo di architettare un agguato ai loro danni e ucciderli tutti. “Non siete al sicuro qui, non importa quante armi o quanti soldi avete, ve li porteranno via quando vogliono. Avete creato qualcosa qui stasera ed è stato bellissimo, ma è stato costruito su una bugia”: seppure incoraggi la resistenza, Remmick ricorda ai protagonisti che gli strumenti di cui dispongono sono stati loro concessi proprio dall’oppressore e che, di riflesso, l’arte che hanno creato nasce dalle ceneri del dolore.
Dopo essere riuscito a trasformare in vampiri gran parte del pubblico del juke joint, il nostro antagonista si serve della sua connessione mentale con loro per costringerli a cantare e ballare un classico della musica irlandese, Rocky Road to Dublin. La canzone narra del viaggio di un irlandese verso Dublino per salpare verso l’Inghilterra, dove spera di trovare fortuna. Una volta arrivato, però, viene discriminato e incappa in una rissa. Per sua fortuna, arrivano altri immigrati irlandesi a difenderlo. Questo momento in particolare rispecchia la massima espressione del vampiro nel concetto di culture vulture e assimilatore: Remmick sta infatti usando le voci e i corpi dei suoi seguaci per poter rivivere quel senso di comunità che sente ormai lontano. Più volte nel film si associa il suo bisogno di vampirizzare gli altri ai concetti di salvezza e uguaglianza, tuttavia, in questa scena, lui stesso è al centro e tutti si devono uniformare a lui.
Seppure il film presenti in positivo l’idea di gatekeeping, si sottolinea anche il valore della condivisione. Prova ne è il fatto che la stessa soundtrack è stata composta dallo svedese (e bianchissimo) Ludwig Göransson, che ha lavorato a stretto contatto con musicisti blues neri. Studiando da vicino la storia e l’impatto culturale del genere è riuscito a creare una colonna sonora davvero calzante e altamente fedele ai ritmi e all’energia del tempo. Göransson stesso è l’esempio che, attraverso l’apprezzamento e la comprensione delle culture altre, è possibile creare prodotti che, dialogando con essi, omaggino (e non sostituiscano) gli originali.
Per chiudere, non possiamo non citare quella che è la scena più potente del film. In essa il regista ribadisce quanto la musica sia importante per le comunità marginalizzate: Sammie, esibendosi, chiama a sé gli spiriti del passato e del futuro. Dalle danze tribali al rock fino ai giorni nostri, ogni comunità ha le proprie canzoni e i propri ritmi che ne definiscono le caratteristiche, fungendo da collante attraverso luoghi, tempi, spiritualità e modi di vita profondamente diversi. Lo stesso Delta Slim ricorda a Sammie: “Il blues non ci è stato forzato [come il cristianesimo]. Questo ce lo siamo portati da casa. Quello che facciamo è magico, è sacro ed è grande”. La magia che contraddistingue le leggende che riguardano la musica — presente in tutte le culture del mondo — ci ricorda di come l’arte può aiutarci a guarire. Questo film ci spinge a riflettere su quanto arti quali la musica e la danza sono e rimarranno per sempre forme di resistenza.
Gaia Sposari
Crediti immagine copertina: primevideo.com
