“Vedere le masche”: la mitologia piemontese

Figure mitologiche del folklore contadino piemontese, le masche streghe delle Langhe – hanno reso insonni le notti di molti bambini e animato i migliori racconti a lume di candela. Secondo l’immaginario comune, e come riportato in Guida delle Langhe misteriose di Giuliano Vogliolo, le masche vengono tipicamente rappresentate come creature della magia popolare, spesso animate da cattive intenzioni e, in alcuni casi, anche in combutta con il Demonio stesso. In grado di assumere sembianze animali, in particolare del gatto, queste si aggirano di notte nel buio delle colline piemontesi, spaventando soprattutto i trifolau: “cercatori di tartufi” che, al calar del sole, sempre muniti di mantello e bastone, perlustrano i boschi alla ricerca del prezioso fungo ipogeo. Immancabilmente scortati dai loro fedeli compagni a quattro zampe, questi, con un fiuto infallibile, individuano il punto in cui si nasconde il celebre frutto della terra.

Ma come fare a riconoscerle in caso di incontro? Semplice: donne, solitamente anziane, naso adunco, sorriso sdentato e classico abito lungo nero. Ogni tanto, però, per ingannare le loro vittime, possono anche trasformarsi in meravigliose ragazze, così da passare inosservate e raggirare più facilmente i malcapitati o le malcapitate. Alle prese con filtri d’amore e incantesimi, poi, anche le masche, come le streghe d’ogni tradizione, si ritrovano per il sabba la notte di San Giovanni, il 24 di giugno: in quest’occasione sono solite incontrarsi e ordire i loro piani per il futuro.

Crediti: https://langhe.net/593/masche-racconti-brevi/

Per quanto riguarda l’eredità, invece, sempre per riprendere Vogliolo, in punto di morte la masca, per evitare che il suo potere venga perso, deve lasciarlo a una persona, una soltanto. Questo, potendo essere trasmesso solo alle donne, viene tramandato solitamente a una figlia o, in caso di necessità, anche a una passante sconosciuta, tramite la sola stretta di mano. Insieme al loro potere, le masche tramandano anche il cosiddetto “Libro del comando”. Ci sono, però, anche masche che, avendo vissuto il loro potere come una sorta di maledizione personale, decidono di non trasmetterlo, bensì di scagliarlo contro un albero, il quale rinsecchisce all’istante. La punizione, nel caso in cui la trasmissione non avvenga, è una morte orrenda, tra dolori e tormenti.

Purtroppo, al di là della mitologia, la fine peggiore è toccata davvero a molte donne che, vittime dell’ignoranza e della superstizione, hanno pagato con il rogo o con le torture le accuse di stregoneria mosse da compaesani o dall’Inquisizione, che gestiva gli interrogatori all’epoca della caccia alle streghe. Anche le Langhe non sono sfuggite a queste pratiche. Stando a quanto racconta Baldassarre Molino in Eresie, masche e stregonerie fra Langhe e Roero, il 5 dicembre 1484, dopo soli 3 mesi dalla sua elezione, papa Innocenzo VIII, con il supporto di Jacob Sprenger e Heinrich Institor (inquisitori domenicani), apriva, appunto, la cosiddetta “caccia alle streghe”, emanando la bolla Summis desiderantes affectibus. La bolla autorizzava la tortura per estorcere le confessioni a chi veniva accusato. Dettaglio ulteriormente macabro riportato da Molino è il fatto che, nello stesso periodo, sempre da parte dei due frati domenicani, veniva prodotto il Martello delle streghe (Malleus maleficarum): saggio sulla stregoneria, con dettagli circa il rapporto tra il Maligno, le streghe e i loro presunti poteri, il libro conteneva alla fine anche un vero e proprio manuale di istruzioni su come condurre il processo d’inquisizione.

In un periodo storico in cui la mortalità infantile dilagava, carestie e pestilenze erano all’ordine del giorno e disgrazie di ogni tipo si abbattevano sui villaggi, trovare un capro espiatorio su cui riversare le proprie frustrazioni e in cui individuare il colpevole del male nel mondo sembrava la strada più semplice da percorrere (e spesso lo sembra tuttora). Essere additate come streghe, o masche, era quindi più facile del previsto: le vittime più comuni erano donne anziane, vedove o nubili, in una posizione che, quindi, non garantiva protezione sociale; donne in condizione di povertà, più soggette al giudizio e al biasimo e, di conseguenza, alla condanna; e, ancora, donne emancipate o con caratteri estrosi che mettevano a rischio i codici morali vigenti. Quando le accuse di stregoneria cominciano a dilagare, verso il XVII secolo, non sono escluse dal giogo dell’Inquisizione nemmeno persone affette da disturbi psichici o condizioni mediche particolari quali l’epilessia o, addirittura, la malnutrizione, considerati chiari “sintomi di possessione diabolica”.

Sempre Molino, scandagliando gli archivi parrocchiali di Langhe e Roero, riporta il caso di Fiorina, donna originaria di Montà d’Alba, rimasta vedova (perciò in una posizione sociale precaria), accusata di stregoneria da parte del prete del paese, con tanto di prove a corredare l’accusa. Poco tempo prima, infatti, era morto un bambino di 12 anni, sicuramente a causa di un maleficio: le accuse ricadono proprio su Fiorina, che viene incarcerata e interrogata. Nel tentativo di “convincere” la donna – termine utilizzato all’epoca per indicare le confessioni estorte durante l’interrogatorio – la quale non sembrava intenzionata a confessare, si è ricorsi anche alla tortura (solitamente essere appesi a una corda per i polsi, legati dietro la schiena), in seguito alla quale la donna è deceduta. Molino, trascrivendo le carte d’archivio, riporta, poi, anche la difficoltà del curato del paese a trovare un luogo di sepoltura alla donna, alla quale non era stata estorta confessione, ma su cui il sospetto continuava ad aleggiare. Chiedendo consiglio al vescovo di Asti, le spoglie di Fiorina sono poi state seppellite accanto a quelle degli altri montatesi. Questo episodio ci fa comprendere quanto all’epoca “ci volesse poco a dare la patente di masca”.

Nonostante questo tragico risvolto storico, la masca è ancora molto presente e radicata nell’immaginario folkloristico di Langhe e Roero, tanto che queste figure tendono a essere presenti a quasi tutte le rievocazioni storiche e le sagre che si svolgono nei vari borghi, di solito in occasione della festa in onore del Santo Patrono. Anche il linguaggio testimonia ancora questa presenza: “vedere le masche” è un modo di dire piemontese, spesso ancora utilizzato per descrivere una situazione di grande difficoltà, che genera anche timore o spavento.

Benedetta Boffa

Fonti:

  • G. Vogliolo, Guida delle Langhe misteriose, Milano, Sugar Editore, 1972, pp. 49-51
  • B. Molino, Eresie, masche e stregonerie fra Langhe e Roero, Piobesi d’Alba, Sorì Edizioni, 1999, pp. 15-17, pp. 53-55

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