SPECIALE MAFIA: considerazioni di Antonino di Matteo

Ha senso parlare di mafia nel 2025? Ha senso parlarne in relazione al Nord, a Torino? Politica, polemica e politici: quale il loro ruolo? La risposta non è semplice, ma cerchiamo di capire perché in questa nuova rubrica.

Venerdì 10 ottobre si è tenuta al Campus Luigi Einaudi la conferenza sulla mafia Le radici del male, i frutti della speranza, organizzata da Elsa Torino. A moderare era presente Fabrizio Schiavo, dal 2018 coordinatore nazionale del Movimento Agende Rosse. Quattro i relatori di grande prestigio, noti per il loro impegno nel contrasto alla criminalità organizzata: Antonino Di Matteo, magistrato italiano e sostituto procuratore antimafia e antiterrorismo; Stefano Baudino, giornalista, saggista e vincitore del Premio Internazionale Joe Petrosino e del Premio Angelo Vassallo; Luigi De Magistris, ex magistrato antimafia e politico italiano, europarlamentare e sindaco di Napoli dal 2011 al 2021; Salvatore Borsellino, ingegnere, scrittore, fondatore e portavoce del Movimento delle Agende Rosse, nato per chiedere giustizia e verità sulle stragi mafiose e sui rapporti tra mafia e politica.

La rubrica di articoli dedicata al tema sulla mafia si propone di restituire il contenuto della conferenza e condividere le preziose testimonianze di questi importanti ospiti. Questo articolo, primo della serie, è dedicato all’intervento del dott. Antonino di Matteo.

La mafia oggi

La mafia non rappresenta una pericolosità unicamente dal punto di vista dell’ordine pubblico, non è solo una questione criminalità, ma di lesione della libertà, della dignità di un popolo e della nostra stessa democrazia. Pensare oggi che il fenomeno mafioso sia sconfitto o che la sua pericolosità sia attenuata, spiega Di Matteo, sarebbe ed è un gravissimo errore. La storia della mafia, e in particolare di Cosa Nostra di cui Di Matteo si è occupato a lungo, suggerisce un susseguirsi di strategie mafiose. Ci sono stati momenti in cui -come ora sta avvenendo- questo tipo di organizzazioni non fa più stragi né compie omicidi eccellenti, ma ci sono stati momenti in cui, a questi periodi, ne sono seguiti altri in cui la mafia ha ripreso a sparare. Oggi, la criminalità organizzata, non è meno pericolosa di quella dell’inizio degli anni ’90. La mafia di oggi crede che evitare gli omicidi eccellenti, col clamore di quello che comporta nell’opinione pubblica, sia utile per fare affari, per apparire quelli che non sono, per riciclare gli enormi proventi del traffico illecito di stupefacenti e degli altri reati tipici della mafia in attività apparentemente legali. Da questo punto di vista, i gruppi mafiosi sono ancora più pericolosi oggi: si sono mimetizzati.

Il vero potere della mafia non sta nella disponibilità di armi ed esplosivi, nel traffico di stupefacenti o nelle estorsioni, ma è quello relazionale: la capacità che hanno avuto -e che hanno- di interloquire con la politica, il mondo dell’imprenditoria, la grande finanza, le istituzioni. Ecco perché il sogno di Giovanni Falcone che diceva che la mafia come ogni fenomeno umano ha avuto un inizio e avrà una fine non si è ancora realizzato ed è lontano dal farlo. Manca la consapevolezza che per sconfiggere la mafia bisogna recidere ogni tipo di rapporto esterno con essa. Questo sogno potrà realizzarsi se concorreranno in futuro tre condizioni:

  • Il potere istituzionale e politico dovrebbe evitare ogni tipo di rapporto con la criminalità organizzata.
  • La lotta alla mafia riguarda la tutela della democrazia e l’applicazione della Costituzione. Essa e la lotta alla corruzione (l’altra faccia della medaglia) dovrebbero essere, quindi, al primo posto di ogni agenda di governo.
  • Occorre una sorta di rivoluzione culturale che parta dai più giovani, dalle università, dal popolo che faccia loro rifiutare l’humus su cui sorge il fenomeno mafioso e cioè la mentalità dell’appartenenza, della raccomandazione, delle lobby, della necessità di dover “appartenere a qualcuno” per farsi strada nella vita.

«Senza questi presupposti siamo destinati a vincere alcune battaglie ma non a vincere la guerra» sostiene Di Matteo.

Attività politica in prima linea

La lotta alla mafia non è una sola questione di repressione e, quindi, non è compito esclusivo della magistratura e delle forze di polizia. L’attività politica deve essere in prima linea, come è avvenuto in alcuni momenti del passato. Di Matteo fa riferimento a Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia poi ucciso nel 1982, ispiratore della legge Rognoni-La Torre che ha istituito il reato di associazione mafiosa e che ha previsto, per la prima volta, la possibilità di sequestrare e confiscare i beni mafiosi. Pio La Torre, nel 1976, fu il primo firmatario di una relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia in cui si facevano i nomi e i cognomi, citando fatti, nomi e circostanze dei mafiosi e dei politici siciliani collusi. Quei nomi e quei fatti non erano scritti né nelle sentenze della magistratura né nei rapporti della polizia dei carabinieri. Quello è un esempio di politica in prima linea: una politica che sa denunciare e anticipare le indagini. Oggi, nella migliore delle ipotesi, quando c’è un’indagine che riguarda la collusione tra mafia e potere, assistiamo a politici che dicono: “Attendiamo la sentenza definitiva della magistratura”. Non dovrebbe essere così. Di Matteo spiega: «Le sentenze definitive della magistratura accertano la responsabilità penale, ma ci sono comportamenti e fatti già accertati che, al di là della loro configurabilità come reati, dovrebbero imporre alla politica di far valere una responsabilità politica in capo a chi li ha commessi».

Nicole Zunino

Lascia un commento