Muhammad Ali: “impossibile è niente”

“Impossibile è solo una grossa parola pronunciata da piccoli uomini, che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che lottare per cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre. Impossibile è niente“.

Questa celebre frase è stata pronunciata da uno dei più grandi pugili della storia, un uomo che si è ribellato alle discriminazioni razziali, alle ingiustizie sociali e alle regole imposte da un mondo che voleva vederlo solo combattere sul ring, senza mai pensare o esporsi. Muhammad Ali, all’anagrafe Cassius Marcellus Clay Jr., è stato molto più di un atleta: è stato un simbolo di libertà, di orgoglio e di coraggio civile, con una vita segnata da vittorie straordinarie e da battaglie ancora più grandi, dentro e fuori dal ring; un uomo che ha osato essere sé stesso anche quando tutti gli dicevano di tacere.

Cassius Marcellus Clay foto: Gerry Cranham

Nato nel 1942 a Louisville, in Kentucky, in un’America ancora profondamente divisa dal razzismo, Ali scopre la boxe quasi per caso. A dodici anni gli rubano la bicicletta e, furioso, giura che avrebbe “picchiato il ladro”. Il poliziotto Joe E. Martin, che era anche allenatore di pugilato, gli suggerisce allora di imparare a combattere per davvero: quel semplice consiglio ha rivoluzionato la storia dello sport. Cassius Clay mostra sin da subito un talento fuori dal comune: rapido, preciso, con un’energia che sembra danzare attorno agli avversari; “vola come una farfalla, pungi come un’ape” diventa il suo motto, l’essenza di un modo di combattere e di vivere. Dopo aver vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma nel 1960, torna negli Stati Uniti come un eroe, ma anche come il simbolo delle contraddizioni del suo Paese; in effetti, nonostante l’oro al collo, un ristorante di Louisville gli nega l’ingresso per il solo fatto di essere nero. In un gesto di rabbia e dignità, Clay getta la medaglia nel fiume Ohio. Quel momento segna l’inizio della sua ribellione: non accetterà più le regole di chi lo vuole inferiore. Nel 1964, a soli 22 anni, sconfigge Sonny Liston e diventa campione del mondo dei pesi massimi; il giorno dopo annuncia la sua conversione all’Islam e il cambio di nome: da Cassius Clay a Muhammad Ali. “Cassius Clay è un nome da schiavo, io non l’ho scelto e non lo voglio”, afferma con la sua consueta fierezza. Quel gesto non è solo religioso, ma anche politico e identitario: Ali rifiuta così di essere una pedina del sistema e rivendica la propria libertà in ogni forma possibile.

Ali Londra foto: Gerry Cranham

In un’America attraversata dalle tensioni razziali e dai movimenti per i diritti civili, Ali diventa l’emblema di una generazione che non vuole più abbassare la testa. Mentre figure come Martin Luther King Jr. e Malcolm X guidano la protesta nelle strade, lui porta quella stessa lotta sul ring, sotto i riflettori del mondo intero. Nel 1967, nel pieno della guerra del Vietnam, quando riceve la chiamata alle armi, esprime la sua decisione di non arruolarsi con parole che hanno fatto il giro del mondo: “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato ne**o”. Quel rifiuto gli costerà tutto: privato del titolo e sospeso dalla boxe, viene condannato a cinque anni di carcere e gli viene impedito di combattere per tre anni, interrompendo la sua carriera nel momento più alto.

Ali, però, decide di non piegarsi a questa decisione. Da quel momento inizia a viaggiare, tenendo conferenze in università e teatri, per parlare di pace, fede e giustizia. Da campione sportivo diventa un’icona morale, un punto di riferimento per chi sta lottando contro il razzismo e la guerra. Molti lo odiano, ma molti di più lo amano: per milioni di giovani afroamericani, Ali è la prova vivente che si può essere forti senza rinunciare alla propria dignità. La sua voce rompe il silenzio imposto a chi, fino a quel momento, non ha mai avuto diritto di parola.

Quando poi, nel 1970, gli viene concesso di tornare sul ring, molti lo considerano ormai finito. Lui, però, è riuscito a dimostrare che la grandezza non si misura in anni di attività, bensì nella forza di rialzarsi. Il suo ritorno culmina con il leggendario “Rumble in the Jungle” del 1974 contro George Foreman, a Kinshasa. Tutti lo danno per spacciato: Foreman è più giovane e potente; ma Ali, con la sua astuzia, inventa la tattica del rope-a-dope: si appoggia alle corde, lascia che l’avversario si stanchi e poi lo colpisce con una raffica di colpi precisi e fulminanti. All’ottavo round, Foreman crolla. Quel trionfo non è solo sportivo, ma soprattutto politico e simbolico: il mondo nero, in Africa come in America, vede in Ali un eroe di riscatto e orgoglio. Le folle africane lo incitano al grido di “Ali, bomaye!” (“Ali, uccidilo!”), trasformando il match in una festa popolare e in una lezione di identità.

foto: Gerry Cranham

Negli anni seguenti continua a combattere, conquistando vittorie e sconfitte, ma il suo mito è ormai diventato immortale. Quando, poi, nel 1984 gli viene diagnosticato il morbo di Parkinson, Ali non si ritira dal mondo; al contrario, diventa un simbolo di forza e dignità anche nella malattia: appare in pubblico tremante ma sorridente, mentre accende la torcia olimpica ad Atlanta nel 1996, davanti a un intero pianeta in lacrime. Continua anche a viaggiare per cause umanitarie e il suo impegno lo porta in Africa, in Medio Oriente e perfino in Iraq, dove nel 1990 riesce a negoziare la liberazione di alcuni prigionieri americani. Nonostante la malattia, non ha mai smesso di incarnare la sua filosofia: la vita è una lotta, ma la dignità è la vittoria più grande.

Muhammad Ali,quindi, non è stato solo un pugile, ma una rivoluzione culturale. Ha ridefinito cosa significhi essere un atleta, un uomo e un cittadino del mondo. Con la sua voce, ha unito sport, politica e poesia; con il suo corpo, ha trasformato la boxe in arte; con il suo esempio, ha insegnato a milioni di persone che la grandezza non è dominio, ma libertà. Quando muore nel 2016, a 74 anni, il mondo intero si ferma per salutarlo. Da Louisville a Kinshasa, da Roma a New York, la sua immagine — guantoni alzati e sorriso fiero — è rimasta come un faro nel tempo. Oggi, ogni volta che uno sportivo alza la testa contro l’ingiustizia, c’è un po’ di Muhammad Ali in quel gesto, perché Ali ha dimostrato che la vera forza non sta nei pugni, ma nelle idee; che il silenzio è il peggior nemico della libertà; e che impossibile, in realtà, è nulla.

Beatrice Bonino

Fonti:

Wikipedia: «Muhammad Ali». https://it.wikipedia.org/wiki/Muhammad_Ali

«è morto Muhammad Ali, il dio della boxe» Chicstyle.it. http://www.chicstyle.it/e-morto-muhammad-ali-il-dio-della-boxe/

«Prima Cassius Clay, poi Muhammad Alì: campione di dissenso dentro e fuori dal ring» focus.it https://www.focus.it/cultura/storia/cassius-clay-o-muhammad-ali-campione-di-dissenso-dentro-e-fuori-dal-ring

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