Debuttata su Netflix Italia il 21 Settembre 2022, la nuova miniserie firmata Ryan Murphy è presto diventata centro di un polverone mediatico, grazie alle polemiche sollevate dalle famiglie delle vittime e da membri della crew e scelte di marketing decisamente fuori luogo. E come succede spesso, è stata sulla controversia – più che sul prodotto televisivo – a concentrarsi l’attenzione del pubblico, tanto che ad oggi la serie ha scalato le classifiche come una delle più viste e chiacchierate delle ultime settimane.
Del resto, che se ne parli nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli, vero?
La trama
Il Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer è un prodotto true-crime che vuole indagare, seppur in maniera romanzata, la vita del famigerato cannibale di Milwaukee: dieci episodi per coprire la storia del serial killer che ha ucciso nei modi più feroci almeno diciassette ragazzi di colore per poi, addirittura, squartarli e cibarsene. Premesse che sarebbero già forti e violente per un prodotto di fantasia, figuriamoci per una serie che narra di avvenimenti realmente accaduti: i nomi delle vittime non sono solo creazioni fittizie interpretate da attori, ma rappresentano identità di persone vere e proprie che, durante gli anni Ottanta, sono andate incontro a morti cruente e ingiustificate.
La narrazione prosegue a ritroso, dalla cattura di Dahmer nel ’91 si dispiega infatti il resoconto di tutti gli omicidi commessi, cercando di replicare sullo schermo il mondo distorto di una mente malata.
Le vittime non sono infatti scelte a caso, anzi: sono uomini gay e di colore che negli anni Ottanta, ancora più di oggi, costituivano uno dei gradini più bassi della piramide sociale occidentale. Le loro sparizioni non furono mai considerate una preoccupazione reale da parte della polizia, la cui negligenza è stata, seppur in modo passivo, la più grande complice del cannibale di Milwaukee.
Come Dahmer, si possono annoverare una moltitudine libri, serie tv e film di ogni sorta che vogliono ricostruire in modo più o meno fedele le storie di vita di serial-killer realmente esistiti. E benché talvolta si rischi di sfociare nella mitizzazione di queste figure, Ryan Murphy riesce a rimanere tutto sommato imparziale ma comunque avvincente nel raccontare uno dei momenti più tetri della storia degli USA. Dahmer è, in fin dei conti, un prodotto nella media per gli standard della piattaforma di streaming statunitense.
E allora cos’è che desta scalpore?
Le polemiche
Classificata sotto il tag LGBT da Netflix, il 21 Settembre Dahmer compariva nella stessa categoria di prodotti come Heartstopper, Atypical e Chiamami col tuo nome – per citare alcuni dei titoli più famosi. Scelta di marketing che non solo è totalmente fuori luogo, ma anche in un certo senso ingiuriosa. Dopo anni in cui la comunità richiede a gran voce di essere rappresentata anche nei mainstream media, ecco che tra la sfilza di titoli che rientrano nel genere viene promossa una serie il cui fulcro non riguarda in alcun modo le tematiche LGBT o l’esperienza queer, ma che anzi narra gli efferati crimini contro una minoranza indifesa – e d’accordo, l’obiettivo di Murphy è denunciare il razzismo e l’omofobia dei corpi della polizia, non evidenziare l’orientamento sessuale di Dahmer, ma resta il fatto che Netflix di certo non ha fatto una bella figura.
A rincarare la dose è la confessione di una dei membri della crew di produzione, Kim Aslup, che su Twitter ha confessato di essere stata trattata “in modo orribile” sul set: confusa continuamente con l’unica altra collega nera – a cui la Aslup afferma di non somigliare affatto né per altezza o per incarnato, fatte salve le treccine, acconciatura che entrambe le donne portavano.
Da allora il suo profilo Twitter è diventato privato, probabilmente a causa della bufera mediatica sollevatasi e alla pressione sociale cui la donna, ora al centro del discorso, è stata esposta.
Eppure, il rimprovero più duro arriva giustamente dalle famiglie delle vittime di Dahmer, per l’ennesima volta non ascoltate, avvisate o considerate durante la produzione di una biografia del serial killer. Portavoce del coro è stata Rita Isbell, sorella di Errol Lindsey, la cui testimonianza in tribunale è stata riportata dalla serie parola per parola.
Come è accaduto troppe altre volte, nessuna delle famiglie delle vittime è stata avvisata prima del rilascio dello show: anzi, molti dei familiari in lutto hanno scoperto l’esistenza de Il Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer proprio tramite telefonate e messaggi di persone terze. Una mancanza di rispetto enorme, quella di non considerare queste persone né prima né durante la produzione e addirittura neanche a trailer pubblicato. Rita Isbell, come molti altri, ha ammesso di aver rivissuto l’esperienza della morte del fratello e degli anni che ne sono seguiti. Ha dichiarato:
“Vedere uno spezzone dello show mi ha dato fastidio, soprattutto quando ho visto me stessa, quando ho visto il mio nome sullo schermo e questa signora che diceva esattamente quello che avevo detto io. Se non mi conoscessi meglio, avrei pensato di essere io. I suoi capelli erano come i miei, indossava gli stessi vestiti. Per questo mi è sembrato di rivivere tutto da capo. Mi ha fatto rivivere tutte le emozioni che provavo allora.”
Secondo la donna, Netflix non solo ha mancato di rispetto alle vittime e ai familiari evitando di chiedere loro un parere, o almeno il consenso, ma la piattaforma si è anche arrogata il diritto di intascare tutto il denaro ottenuto dagli stream da record.
“Voglio dire, sono vecchia. Sono agiata economicamente. Ma le vittime hanno figli e nipoti. Se la serie fosse andata a loro vantaggio in qualche modo, il tutto non sarebbe stato così duro e umiliante.”
Rebecca Siri
