“La 194 non è assolutamente in discussione”, ha recentemente affermato la neo ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità Eugenia Roccella, eletta con Fratelli d’Italia. E’ una rassicurazione in linea con quelle fornite anche dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni, che però, se letta in parallelo alle altre dichiarazioni sul tema di esponenti del governo e alle azioni dei loro partiti a livello locale, rivela quale sia la reale strategia del centrodestra: sfruttare le problematiche di una legge di compromesso per limitare l’applicazione del suo punto centrale, l’interruzione volontaria di gravidanza.
L’insistenza sul non avere intenzione di modificare la legge 194, ma voler “applicarla integralmente” come dichiarato da Giorgia Meloni, accompagnata delle dichiarazioni di Roccella su come l’aborto “non sia un diritto” ma “un male necessario”, e da quelle di Francesco Lollobrigida (al tempo capogruppo di FdI alla Camera, ora ministro delle politiche agricole) sul “dare alle donne il diritto di non abortire” invitano a una riflessione su che cosa la legge del 1978 realmente preveda.
Se, infatti, la 194 ha legalizzato l’aborto entro i primi 90 giorni di gravidanza, rendendo la procedura disponibile negli ospedali pubblici, lo ha fatto disattendendo la visione e le lotte del movimento femminista e proponendo soluzioni di compromesso utili per l’approvazione parlamentare ma tali da ostacolare l’accesso all’IVG.
Questo è reso chiaro dal linguaggio adottato a partire dal prologo della legge, che parla di “tutela della vita umana dal suo inizio” e di come l’aborto “non sia mezzo di controllo delle nascite”, ma soprattutto è evidente nel testo, con l’introduzione di articoli che prevedono l’aiuto, anche fornito da associazioni di volontari, alla “maternità difficile”, la prassi di invitare la donna ad aspettare 7 giorni (riducibili solo in caso di urgenza) prima di accedere alla procedura, la necessità per le minorenni di ottenere l’approvazione del tutore o l’autorizzazione da parte di un giudice, e soprattutto l’obiezione di coscienza per il personale medico-sanitario.
Proprio l’accesso delle associazioni antiabortiste ai consultori e agli ospedali è stato negli ultimi mesi oggetto di dibattito in Piemonte, per via dello stanziamento in consiglio regionale (guidato dal centrodestra) di 400.000 euro annui per finanziare enti pro vita, con l’obiettivo di incentivare anche economicamente le donne a non abortire, al quale sono seguite mobilitazioni di protesta dei movimenti femministi. Questa misura, similmente alle interferenze messe in atto da diverse regioni governate dalla Lega e da Fratelli d’Italia per scoraggiare la pratica dell’aborto farmacologico, dimostra come non sia necessario agire contro la 194 per limitare e rendere più complesso l’ottenimento dell’interruzione di gravidanza, già gravato dalle altissime percentuali di medici obiettori, e come al contrario la difesa della legge possa essere usata selettivamente per scopi opposti a quelli per i quali è stata chiesta e approvata.
Il tema della piena applicazione della norma vigente è stato sollevato anche da Maurizio Gasparri, eletto con Forza Italia, nel suo giustificare l’aver presentato (per la terza volta) una proposta di legge che attribuirebbe capacità giuridica agli embrioni al momento del concepimento, rendendo di fatto l’IVG assimilabile ad un omicidio.
Quello dei limiti della 194 è un problema sottolineato dal femminismo italiano (e dal partito radicale in cui al tempo militava la stessa ministra Roccella, poi protagonista di una curiosa giravolta politica) dal momento della sua approvazione, che può essere trasformato da ogni governo di ordinamento pro life in un’opportunità per attaccare il diritto di scelta mantenendo una parvenza di suo rispetto. Non è detto se questo esecutivo la sfrutterà, ma appare chiaro perché per anni i movimenti pro choice abbiano chiesto “molto più di 194”.
