Sabato 27 Maggio si è conclusa la settantaseiesima edizione del Festival di Cannes: iniziata martedì 16, abbiamo tutti ben presente le immagini del red carpet storico, la trepidazione per i tre film italiani in concorso, e ancora la curiosità circa i nuovi candidati alla vittoria.
Anatomie d’une chute rientra senz’altro nell’ultima categoria: il suo debutto è programmato per il 23 di agosto, ma il film francese ha già trionfato al Festival guadagnandosi la Palma d’Oro. «Francesi che premiano francesi» ha sbottato qualcuno che magari auspicava una vittoria tricolore, ma anche «donne che premiano donne». La quarantaquattrenne Justine Triet, regista del film, è in effetti la terza donna di fila a vincere la tanto agognata Palma d’Oro e, come ha detto Jane Fonda al momento di annunciarla, quello che conta è «l’importanza di avere avuto sette registe in concorso».
Che siano questi i primi passi per una maggiore parità nella scelta dei vincitori è un po’ presto per dirlo. Quello che conta è che sia stato premiato il talento e Anatomie d’une chute, acclamatissimo dalla critica, ha tutte le carte in regola per risultare un prodotto di tutto rispetto.
La narrazione segue la storia della famiglia di Sandra che, insieme al marito e scrittore Samuel e al figlio non vedente Daniel, vive in uno chalet in una località remota e montagnosa. A turbare il sereno scorrere del tempo è il presunto suicidio di Samuel: ben presto Sandra si ritrova a dover affrontare un’accusa di omicidio e a questo si aggiunge l’esperienza di Daniel, che a un anno dalla morte del padre sarà costretto a assistere al processo di sua madre.

Il processo di Sandra diventa il meccanismo narrativo per mostrare le dinamiche di una coppia – o meglio: del rapporto tra gli uomini e le donne in generale, delle relazioni che si disgregano prima lente, poi tutte in una volta. Anatomia di una caduta, questo il titolo in italiano, vuole proprio vivisezionare con precisione clinica la catabasi verso gli inferi, in un incubo sempre più profondo che è tanto quello del processo quanto del matrimonio tra Sandra e Samuel.
Quello che si snoda di fronte ai nostri occhi è infatti il processo, l’alternarsi di avvocati, procuratori, giornalisti – insomma, tutto quello che é precluso alla vista dello spettatore di cronaca nera che, magari al telegiornale, ascolta annoiato il resoconto dell’ennesimo caso. Ma ciò che distingue il lungometraggio della Triet, tuttavia, è il dubbio che pervade ogni singola scena scandita da dialoghi brillanti: quello di Samuel è stato omicidio o suicidio? E poi l’autrice scava ancora più in profondita: Samuel é morto per mano di una moglie manipolatrice e narcisista o si é tolto la vita perché incapace di continuare a condividere la propria esistenza con un’autrice esuberante, una personalità troppo forte, troppo imperativa?

Anatomie d’une chute si accoda nella lista – ancora piuttosto recente – di film che non si fanno scrupoli a mostrare un lato meno discusso della femminilità. Quella parte più gretta, più calcolatrice, più cattiva: non si cercano scusanti e nemmeno recondite motivazioni, semplicemente si accetta che il ruolo femminile possa anche essere quello più crudele, o almeno negativo, e viene a sgretolarisi il topos di donna che é sempre e solo vittima. Nel film, infatti, ella é carnefice – forse concretamente, forse solo metaforicamente – ed é fredda, controllata, piena di rabbia. Nel filone rientrano altri titoli come Gone Girl – L’amore bugiardo, Misery non deve morire, Soft and Quiet e ancora il nuovo popolarissimo Pearl.
Rebecca Siri
