Asteroid City è l’ultimo film di Wes Anderson, presentato in concorso alla 76esima edizione del Festival di Cannes il 23 maggio. L’attesa per l’ultimo lavoro del regista di Grand Budapest Hotel e Moonrise Kingdom è palpabile: le file più nutrite sono proprio quelle delle proiezioni sparse per la Croisette di questo film dal cast così colmo di nomi stellari da destare quasi preoccupazione (per fare solo alcuni nomi: Scarlett Johansson, Steve Carell, Tom Hanks, Margot Robbie, Edward Norton).

Gli ingredienti principali del cinema andersoniano sono presenti: un’ironia pungente e un mondo costruito con meticolosità e immerso in un’estetica segnata da una cifra stilistica personale così riconoscibile da essere diventata iconica e così iconica da rischiare di diventare la parodia di sè stessa. Un rischio che viene schivato in Asteroid City, dove l’estetica andersoniana riesce a non accartocciarsi su sè stessa diventando una confezione vuota e riciclata alla stremo, ma entra in armonia con la storia che galleggia dentro di essa. Così ci ritroviamo all’interno di una cittadina desolata in mezzo al deserto, isolata dal resto del mondo e più in contatto con lo spazio e con le sue possibilità di vita che con il resto del tran tran terrestre: trovando questo legame con il luogo dell’azione la plasticità dell’estetica del regista texano non risulta inutilmente artefatta e usurata ma diventa oltre che cornice componente della storia raccontata. Ma qual è questa storia?

Alla primissima scena siamo subito avvisati: questo film non racconta una storia reale. Questo è un film su una storia che non esiste, è un film su un film. Più precisamente, un’opera teatrale all’interno di uno sceneggiato televisivo all’interno di un film, con un Edward Norton nei panni di uno sceneggiatore che presenta al pubblico televisivo di uno spettacolo anni ’50 (e al pubblico contemporaneo in sala) la sua piéce. Non c’è spazio per la realtà: c’è il cinema, c’è il teatro, c’è la televisione.
Sembrerebbe non esserci spazio per nessun fraintendimento: personaggi, storie e fatti raccontati sono completamente inventati e ogni riferimento a fatti realmente accaduti e persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale. Ma nel corso della visione questa premessa di finzionalità si sfalda continuamente e le due storie, seppur divise con netta precisione cromatica, oltrepassano il confine sfumato tra la realtà in cui si scrive e la realtà scrittà rappresentando il territorio degli scambi, dei prestiti, dei furti dei pensieri, ma soprattutto della ricerca continua.
Il microcosmo accidentale di Asteroid City non è una dimensione statica: all’interno dei toni turchesi e delle inquadrature fatte di ritmi cadenzati e composizioni planimetriche, i personaggi si muovono lungo un filo frammentario, su cui si scontrano con le malinconie e le perdite del passato e le possibilità del futuro. Delle preoccupazioni che attraversano diversi livelli, dal piano delle storie individuali dei personaggi della pièce a quello della troupe teatrale fino a diventare un’ampia riflessione esistenziale e metacinematografica che sembra aleggiare nel mondo dell’arte e in particolare del cinema e che diversi autori stanno cogliendo e filtrando attraverso le loro sensibilità.
Entrambe le storie, quelle degli abitanti-ostaggi di Asteroid City quanto quella di chi li ha inventati, sono l’incarnazione della tensione verso la ricerca, verso lo spazio bianco della creazione, verso quello che ancora non esiste ma potrebbe iniziare a farlo da un momento all’altro, in quanto è stato ormai, quantomeno, immaginato. Come un alieno in mezzo al deserto e il suo asteroide.
Sofia Racco
