“Kafka a Teheran” e i paradossi del potere

Un uomo anziano, dalla faccia solcata da rughe così profonde da sembrare ferite insanabili, giace senza vita in un ufficio asettico: alle sue spalle, attraverso le ampie vetrate, si intravede uno scenario apocalittico tradizionale, fatto di esplosioni, nuvoloni neri, edifici che crollano: come ci si immaginerebbe la fine del mondo.

La morte, che dopo aver strisciato verso i corpi putrefattisi prima del loro tempo biologico e averne preso possesso, si mostra con prepotenza attraverso una scena catastrofica.
È l’unico finale possibile per Ali Asgari e Alireza Khatami, i registi di “Kafka a Teheran” (Terrestrial Verses), il lungometraggio presentato quest’anno a Cannes per “Un Certain Regard” e uscito in Italia il 5 ottobre, che attraverso una struttura narrativa fatta di episodi in cui un essere umano perde un po’ di sé, mostra la lente agonia di un’umanità impigliata nelle maglie dell’autorepressione attraverso scene di vita quotidiana della società iraniana. Un film girato senza permesso, come un esplicito atto di protesta.


“Sono storie di amici, parenti, persone care. Ci hanno raccontato tantissimi aneddoti: abbiamo scelto quelli più esemplificativi di ciò che sta accadendo nel paese, aggiungendo l’umorismo per far arrivare meglio il messaggio. Ma è tutto vero. Non pretendiamo di raccontare una società intera, ma un insieme di storie che ci capitano tutti i giorni. Cose che capitano, naturalmente, quando vivi oppresso da un sistema che ti controlla. Da lontano magari non si capisce chiaramente, ma quando prendi una lente di ingrandimento e osservi da vicino un fenomeno, ecco che l’assurdità del quotidiano emerge con una certa, evidente forza.”, spiega lo stesso Khatami quando parla della scelta della struttura episodica.


Una lente di ingrandimento su scene di vita quotidiana. Quotidiana perché caratterizzano quasi ogni giornata di un cittadino iraniano, ma gli episodi che si svolgono davanti alla macchina da presa immobile per tutta la durata del film non hanno niente di ordinario: il film cattura il sottile e pervasivo esercizio del sopruso e della violenza messo in atto dai tentacoli burocratici che si insinuano nella vita dei cittadini tenendoli costantemente in uno stato di deprivazione, e che attraverso piccoli e grandi divieti ne marchia la vita con il segno dell’oppressione.

Una donna privata del suo cane dalle autorità perché considerato impuro, una ragazza che si toglie il velo nella sua macchina, la sceneggiatura di un regista che si sfalda sotto i colpi paradossali di una censura cannibalizzante. Sulla scena non compaiono grandi figure tiranniche, nessun dittatore esaltato ed ebbro di potere intento a pronunciare i suoi discorsi propagandistici con cui arringare la folla adorante e terrorizzata.

Il potere non ha un volto, ma la voce anonima dei funzionari amministrativi: nessuna suggestiva figura che incarna la malvagità assoluta a fare da monito, ma un enorme sistema senza volto, reso ancora più produttivo e solerte nella sua opera di repressione servendosi delle strutture capitalistiche, che disgregano e disperdono le comunità.


Non c’è bisogno di fare film sulla fine del mondo, su un’esistenza postapocalittica in una terra priva di vita umana o su un universo distopico orwelliano: basta mettere in scena le piccole amputazioni quotidiane operate da un efficiente e celere apparato burocratico assoggettato a un potere in cui l’elemento religioso si intreccia con quello capitalistico per far percepire un sentimento mortifero che nasce da ognuna di quelle piccole incisioni e che si insinua quadro dopo quadro, fino alla sua deflagrazione.

Un sentimento mortifero che si insinua in ogni divieto e limitazione, pervadendo in primo luogo lo spazio intimo e individuale: in “Terrestrial Verses” osserviamo i melliflui e feroci funzionari statali che attraverso la rigida applicazione della legge del padrone invadono con brutalità l’intimità delle persone asportando pezzi di esistenze, tarpando le individualità nei loro aspetti più personali e spirituali.

Privando una coppia di genitori di dare un nome al loro figlio, impedendo l’uccisione del padre nella scrittura di uno sceneggiatore, costringendo un uomo ad esporre le parole incise sulla sua pelle. Quest’accumularsi di violazioni e di vessazioni viene mostrato senza troppi orpelli: solo una macchina da presa fissa, una serie di aneddoti raccolti da amici, parenti e conoscenti di ritorno da qualche ufficio, e la scena si fa chiara, in tutta la sua quotidiana assurdità.

E altrettanto nitidi sono i rapporti di causa-effetto: se lasciamo impunita la forza oppressiva che attraverso la legge e lo Stato forzano la nostra esistenza dentro confini deformati e deformanti, tutto ciò che abbiamo da perdere è la nostra vita. Non c’è nulla di nascosto, nessun messaggio occulto da decodificare, nessuna complessa figura retorica da sciogliere: tutto è mostrato in modo semplice e lineare davanti ai nostri occhi.

Non ce n’è di tempo per complesse costruzioni narrative ed elaborate operazioni ermeneutiche: è il tempo della presa di coscienza, dell’urgenza dell’azione, un tempo troppo breve per perdersi in raffinate operazioni stilistiche. L’arte adesso deve svelare e mostrare, non celare e occultare.

L’urgenza è esistenziale e politica, e richiede all’arte di farsi strumento di lotta e di reazione ai soprusi: anche il cinema deve adeguarsi e catturare il tumulto della rivolta e la sua forza distruttiva e rigenerativa, come afferma con forza lo stesso Khatami: “Credo che sia indispensabile, da un punto di vista etico, trovare un nuovo linguaggio per raccontare il nostro paese, specialmente dopo quel che è successo a partire dal settembre 2022 (le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, ndr). In un momento di crisi e di estrema transizione come questo, non si può far cinema col dolly e il carrello. Serve un nuovo linguaggio. Ci abbiamo pensato, e abbiamo deciso di sottrarre al cinema tutti i suoi orpelli. Via quello che non è strettamente necessario. Andiamo all’osso: una camera e un cavalletto.” Continuare a rendere visibile è la questione principale, a qualsiasi costo.

Una lezione che il cinema iraniano ha dato attraverso i suoi più grandi maestri: Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof (a cui quest’anno, pur essendo stato scarcerato, gli è stato impedito di lasciare il paese per far parte della giura proprio della sezione di “Un certain regard”), Mostafa Alahmad. Mostrare il potere in tutta la sua assurda nudità: far vedere che il “re è nudo” come dice Khatami.

Sofia Racco

crediti immagine di copertina: @academy_two on Instagram

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