“Moonrise Kingdom” di Wes Anderson: un’infanzia adulta

Nell’estate del 1965, su un’isola del New England, vive la dodicenne Suzy, preadolescente incompresa dai genitori. Si trova lì in campeggio scout anche il coetaneo Sam, orfano affidato a una famiglia che lo considera troppo “difficile” per continuare ad occuparsene. I due si conoscono casualmente, si innamorano e decidono di fuggire insieme seguendo un antico sentiero tracciato dai nativi nei boschi. Una scena nel film, in particolare, sintetizza il senso del film stesso: quella in cui Sam e Suzy si dicono “ti amo” per la prima volta.

Due scarabei con dei bei riflessi blu e verdi sono infilzati in due piccoli uncini di metallo sottile: si tratta del paio di orecchini che Sam ha costruito appositamente per Suzy e che le vuole regalare. Il problema è che Suzy non ha i buchi alle orecchie. Una delle scene più brevi e importanti del film è questa, il momento in cui si delinea meglio la condizione in cui si trovano i due protagonisti dodicenni: sono due bambini che giocano a fare gli adulti. Lui infatti regala a lei un paio di orecchini, come se fossero d’oro e li avesse appena comprati da un gioielliere, quando invece sono soltanto un paio di insetti morti. Lei, che accetta il regalo, è disposta addirittura a farsi bucare le orecchie da lui. È qui che è sintetizzato tutto quello che serve per descrivere quest’infanzia adulta, matura, apparentemente anomala, che vivono i protagonisti. Sono bambini che non si tradiscono con la spensieratezza, sono sempre terribilmente seri, non c’è un momento in cui si concedono di giocare realmente. Anzi, quello che può sembrare un gioco o una semplice avventura nasconde al suo interno molta più sofferenza di quanto in realtà sembri. Un semplice paio di orecchini si trasforma in una ferita che provoca dolore e lascia un rivolo di sangue scorrere dietro l’orecchio di Suzy. La ferita è reale, il dolore è reale, e le conseguenze anche.

I due protagonisti rappresentano un’infanzia che non gioca, che non si diverte, che non sorride. Un’infanzia che tenta di nascondere sé stessa trasmutandosi in un’altra condizione, in uno strano miscuglio che, mascherandosi da adulto, si tradisce costantemente rivelando tutte le sue crepe e immaturità. E le sue contraddizioni. Perché l’infanzia è quel momento in cui tutto è talmente mobile, fluido e in formazione che non può essere chiaro e definito, non può muoversi dritto in una direzione: consapevolezza e dubbio vanno di pari passo, allo stesso modo in cui la ricerca di modelli da imitare si muove insieme alla ricerca della propria identità. Così come il contatto con il dolore, la sofferenza e il male che, in qualunque caso, sono sia subiti che provocati, volontariamente o meno. Diventa possibile quindi che Sam sia la stessa persona che fuma una pipa e che avverte Suzy che forse si farà pipì addosso nel letto; ed è possibile che Suzy sia la stessa che si fa bucare le orecchie da Sam e che ferisce un altro bambino per difendersi.

La serietà con cui si atteggiano vacilla, diventa soltanto una simulazione, un copione che i due recitano quasi per forza, che lascia intravedere la loro sofferenza. Sam è un orfano, Suzy si trova intrappolata in una famiglia che non la capisce, con due genitori che sembrano più bambini di lei. Questo lascia trasparire un’altra parola spesso associata al concetto di infanzia: trauma. Non è inteso come qualcosa che necessariamente definisce, come l’inizio di una catena causa-effetto la cui fine è nota a priori, ma piuttosto come una delle tante possibilità, negative o positive, che suggerisce una direzione o un’inclinazione e che, nel caso di Suzy e Sam, li porta entrambi a incontrarsi nello stesso punto. Un punto che non è fisso, ma è un desiderio, un movimento di allontanamento e di fuga. Il loro legame, il loro “amore”, di cui sembrano convinti a tal punto da celebrare un matrimonio, che risulta anch’esso una sorta di recita, è al contempo un bisogno e un desiderio, che diventa l’unica cosa che veramente conta, senza che i due spesso riescano veramente a capirsi l’un l’altro. È anche questa un’altra sfaccettatura dell’infanzia: un momento in cui amare senza se e senza ma sembra la cosa più sensata e naturale del mondo, in cui scappare di casa con una persona che non si conosce veramente è la cosa giusta da fare, in quel momento.

“Moonrise Kingdom” non mostra un ritratto idilliaco, un’avventura innocua e senza macchie e non mostra neanche una vicenda buia e traumatica: fa vedere quella via di mezzo, quella zona grigia, un po’ sfocata, spesso assurda e senza senso, altre volte più logica e a fuoco del mondo adulto. Ciò che, in un certo senso, sopperisce alla mancata spensieratezza dei due protagonisti è il tono che Wes Anderson mantiene, leggero e divertente, nonostante ci siano venature o piccole crepe da cui filtra qualcosa di più scuro, anche se ben nascoste: perché, sembra dirci, anche se si ride, la situazione è seria.

Laura Marchese

Lascia un commento