Beyoncé, il country e l’intersezionalità – parte prima: COWBOY CARTER

Nel 1939 l’etnomusicologo statunitense John Avery Lomax partì con sua moglie Ruby per un tour negli Stati Uniti del sud, con obiettivo la creazione di uno studio etnografico e un archivio sonoro della musica tradizionale americana. Tale archivio è ancora fruibile sul sito web della Library of Congress. Quasi ottant’anni dopo, nel 2016, la pop superstar texana Beyoncé ha pubblicato il suo sesto album Lemonade, contenente la traccia country “Daddy Lessons” che avrebbe eseguito live con le Dixie Chicks ai Country Music Awards quello stesso anno.

La musica country ha una storia lunga e complicata, in quanto è una melting pot non solo dei tanti generi che Lomax era riuscito ad incidere, ma anche delle musiche e degli strumenti tipici dei popoli immigrati, volenti o no, nelle Americhe: persone nere, irlandesi e messicane – le quali, se non erano schiavi, erano proletari. Nonostante le sue origini veramente multiculturali, il genere ha tutt’ora una brutta reputazione in quanto spesso associato con le frange più estreme e razziste della destra conservatrice statunitense. Così, quando la popstar Beyoncé Knowles Carter ha partecipato come ospite speciale ai 50esimi Country Music Awards nel 2016, è stata ricoperta di critiche in quanto vista come “troppo nera” per un genere “da bianchi”. Beyoncé è una figura pubblica interessante in quanto estremamente privata e al tempo stesso aperta rispetto ai suoi sentimenti e alla sua arte. Attiva in ambito politico dai tempi del suo album self-titled nel 2014, l’artista è passata dal parlare di femminismo in vena pop a denunciare lo stato della comunità nera negli Stati Uniti e parlare della femminilità afroamericana in Lemonade (2016) e nel visual album Black Is King (2020).

Nel 2022 Beyoncé ha pubblicato il primo album della sua presunta trilogia in tre atti, Renaissance. Acclamato da fan e critica, l’album è stato subito inquadrato come una rivendicazione afroamericana della musica dance e disco, nata nelle comunità nere urbane di città come New York e Philadelphia, soprattutto grazie anche a membri della comunità LGBTQ e della classe operaia, con l’importante contributo della comunità latino-americana e delle donne. Il secondo album, Cowboy Carter, è uscito questo marzo e continua il trend del viaggio della cantante in generi popolarmente non visti come “neri” ma che, storicamente, lo sono. L’impero economico ed artistico ben piantato per terra dell’artista le ha permesso, come già successo in Renaissance, di sperimentare il più possibile nei confini pop del genere. Il country funziona meglio se visto come un genere ombrello, con più piccoli sottogeneri e mille variazioni sotto di sé – Cowboy Carter decide di giocare più con il vibe e l’energia western che tutti questi piccoli tasselli possono creare. Alla fine, come detto dalla Carter stessa sul suo Instagram, questo è più un album di Beyoncé che un album country, ispirato ad “una esperienza che [lei ha] avuto nella quale non [si è] sentita inclusa… ed era molto chiaro non lo foss[e]”.

L’album segue un percorso quasi storico, partendo da un sound classicamente country in brani come “16 Carriages” e “Protector” e toccando anche l’ambito del folk revival con la cover di “Blackbird” composta dal duo Lennon-McCartney. La seconda parte sperimenta più con il country pop grazie a brani piacevoli come “Texas Hold‘Em”, “Bodyguard” e “Levii’s Jeans”.  Non mancano le ballate con chitarra acustica, tra le quali spicca in particolare “II Most Wanted”  per le solidissime armonie vocali di Beyoncé e della sua ospite Miley Cyrus. La cover dello storico brano “Jolene” di Dolly Parton (che tra l’altro partecipa all’album in due momenti spoken-word) è sicuramente un altro momento saliente dell’opera: non solo la performance vocale è di alto livello, ma il testo viene cambiato in modo da rendere attivo il punto di vista della donna in conflitto con Jolene.

L’ultima parte dell’album contiene il movimentato e teatrale “Ya Ya”, presentato all’ascoltatore dall’icona country afroamericana Linda Martell, è ispirato al sound rock’n’roll anni Sessanta con riferimenti ai Beach Boys e il beat preso in prestito da “These Boots Are Made For Walkin’” di Nancy Sinatra. “Ya Ya” è il brano più politico, con riferimenti allo stato dell’economia americana e all’abitudine di revisionismo storico perpetuato dal Paese – Beyoncé si immagina come un’agitatrice delle masse, chiedendo all’ascoltatore: “Are you tired, working time and a half for half the pay?”. Il brano si evolve in un continuum fino ad arrivare a “Riiverdance”, che unisce lo stile e la strumentazione country ad un ritmo da dance music. Infine, “Amen” chiude il cerchio riprendendo l’opener dell’album, “Ameriican Requiem”.

Cowboy Carter è certamente un album politico a modo suo, forse quasi implicitamente. Dopotutto è un progetto creato da una donna nera in risposta a come è stata trattata da un pubblico bianco per aver “invaso” uno spazio visto come loro. Beyoncé ha però il proprio modo di gestire la sua figura pubblica e politica. Cosa può significare per l’arte musicale quando una delle donne più ricche del mondo vuole ottenere status culturale in generi associati storicamente alle classi operaie? Di questo, e dell’uso della politica nell’immagine pubblica di Beyoncé e non solo, parleremo meglio nella seconda parte di questo articolo.

Brani consigliati: 16 Carriages, Bodyguard, Jolene, Daughter, II Most Wanted, Ya Ya, Desert Eagle, Riiverdance, Tyrant

Gaia Sposari

Un commento Aggiungi il tuo

Lascia un commento