Si sa, i rebranding non piacciono quasi mai, tranne se si tratta di scelte particolarmente azzeccate o di intuizioni davvero geniali. Negli ultimi dieci anni, la tendenza sembra essere quella del minimalismo e del focalizzarsi, più che sul prodotto in sé, o sulla mission o sul legame dell’item in questione al proprio territorio, anche quando questo legame non sussiste o in origine era diverso. Questo è appunto il caso della birra Raffo, di recente arrivata – dopo oltre un secolo di esistenza – sugli scaffali di tutta Italia. Una sorpresa che alla città di Taranto, da cui la birra viene, ha provocato un misto di contentezza e di straniamento: sull’etichetta, infatti, a parte il classico slogan “la birra dei due mari”, è scomparso ogni riferimento al capoluogo di provincia pugliese. La birra è stata trasformata in una generica “birra di Puglia”, ma di quale Puglia? Il Salento, col tarantismo, il barocco leccese e il dialetto di origine sicula? La Puglia centrale, con le sue bellissime spiagge e la carne rinomata in tutta Europa? Il Gargano e il Tavoliere, con le loro foreste e ben due dei quattro patrimoni UNESCO della regione meridionale? Tutti e nessuno. La birra di Puglia, ma di quale Puglia si tratti non si sa. Può sembrare una questione banale, ma qui si cercherà di analizzare il perché di questa scelta e i motivi per cui, forse, si sarebbe potuto operare diversamente.

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La storia della birra Raffo è indissolubilmente legata alla città di Taranto, dov’è nata nel 1919, in via d’Aquino 68, ad opera di Vitantonio Raffo. Dal 1961 fa parte del gruppo Peroni e oggigiorno viene fabbricata a Bari. Del vecchio stabilimento non è rimasta traccia, quasi un presagio, col senno di poi. Oggi, al suo posto, sorge una sede dell’Agenzia delle Entrate. Negli anni, però, la lager tarantina non ha perso il proprio status di vero e proprio simbolo della città, grazie anche alla storia sponsorship con la squadra di calcio locale e al fatto che l’etichetta rossoblù (i colori del capoluogo) recasse al di sopra il simbolo della città, nonché suo mitico fondatore: Taras, figlio di Poseidone e della ninfa Satyria, che sposò Satureia, figlia del re Minosse. La birra è dunque tarantina in modo indiscutibile; lo è nell’origine, nella simbologia, nell’appartenenza e nella storia. Eppure, ogni riferimento a tutto ciò è scomparso, con un colpo di spugna che ha di colpo “trasformato” la Raffo in una birra genericamente pugliese, probabilmente per far concorrenza alla birra Ichnusa, a sua volta birra di Sardegna. Se la Sardegna, però, mostra una forte coesione regionale (se si ignorano le faide tra Cagliari e Sassari), la Puglia è ben diversa. Le identità locali sono molto forti – ai limiti del campanilismo, va detto – e ogni città è fiera della propria storia e della propria identità. Persino i dialetti sono talmente diversi da rendere quasi impossibile capirsi per un centro-pugliese, un salentino e un apulo (cioè del Gargano), se parlano stretto. La Puglia, purtroppo o per fortuna, non è un unicum, ma un crocevia di culture, storie e pratiche che non possono essere disciolte entro un’unità artificiale, costruita, “marchettabile”.

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C’è da chiedersi allora cos’abbia spinto il gruppo Peroni, controllato dalla giapponese Asahi, a cancellare i riferimenti alla città dei due mari in quest’ardita – e forse affrettata – operazione di marketing. Il nome di Taranto, sfortunatamente, è anche legato allo scandalo Ilva del 2012. Non si vuol stare qui a dilungarsi, ma appare comunque necessario un breve riassunto. Già nel 2000, con le direttive europee sull’industria sostenibile, iniziarono ad emergere i problemi che lo stabilimento siderurgico stava causando: tanti tumori e nessun registro per conteggiarli, avvelenamento da diossina e benzo(a)pirene delle acque, oltre a dissesti finanziari causati dall’amministrazione privata del gruppo Riva. Secondo le accuse, non solo i vertici dell’Ilva avrebbero commesso crimini contro la vita e la salute umana, ma anche lo Stato sarebbe complice per non aver agito per contenere gli effetti mortali di un inquinamento industriale di dimensioni incalcolabili, oltre ad aver contribuito ad aggravarne le conseguenze con l’emanazione dei decreti “salva Ilva”, contrari alla legge comunitaria e tacciati di “inquinamento normativo”. Ogni governo succedutosi dal 2012 ad oggi ha emanato almeno un decreto salva Ilva. Una macchia indelebile, che ha distrutto il settore primario di Taranto, fatto di pesca, allevamento e agricoltura. Un’onta tremenda cui il nome della città è collegato in modo, forse, irreparabile, al punto che chi sente parlare del capoluogo di provincia pugliese quasi subito lo associa allo stabilimento.

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Da un certo punto di vista, dunque, appare logico che Peroni e Asahi non volessero associare il nome della loro nuova birra nazionale a quello di una città martoriata, svenduta e ignorata, peccato che così facendo le abbiano negato un’ottima occasione di riscatto. Il blu sostituito dall’azzurro, il nome scomparso, solo i due mari sono rimasti, ma privi di una connotazione geografica precisa. Ancora una volta, i tarantini vengono relegati solo alla questione Ilva, privati persino della birra che essi stessi hanno contribuito a creare. Si poteva far meglio? Forse, ma tant’è. Almeno tutti gli italiani potranno degustare questa birra particolare e intrisa della storia di un luogo che così tanto la ama.
Vincenzo Ferreri Mastrocinque
