Il tema della lotta generazionale si incastra nella storia come un tassello fondamentale della costruzione ed evoluzione della società e si caratterizza per la rivendicazione giovanile di un proprio spazio nella comunità, nonché per la necessità di riadattarne le regole a propria immagine.
Il contrasto generazionale rappresenta un elemento più che mai attuale nella società iraniana, i cui giovani vengono definiti la “generazione perduta”: si tratta, in altre parole, di quella generazione su cui il regime degli ayatollah ha perso la propria presa e con la quale riscontra sempre più difficoltà nel comunicare.
Un fondamentale dato di partenza riguarda la composizione della società iraniana, nella quale più della metà della popolazione ha meno di trentacinque anni e l’età media si aggira intorno ai trenta. Si tratta di una generazione nata dopo la Rivoluzione khomeinista del 1979, la quale ha destituito lo scià e ha imposto un regime semi-teocratico di religione musulmana sciita, al cui vertice vi è la Guida Suprema.
Visti proprio i numeri che questa giovane parte di società rappresenta, le proteste mobilitatesi negli ultimi anni rappresentano un elemento di forte allarme per l’élite clericale al potere.
L’apice del malcontento verso il regime iraniano si è manifestato con le proteste in occasione della morte di Mahsa Amini a partire dal 16 settembre 2022. La storia della giovane donna, morta in seguito ad un arresto avvenuto perché non indossava correttamente il velo, ha scatenato l’indignazione della popolazione più giovane e moderata, nonché di alcune frange della società conservatrice, che da tempo considerano i metodi del regime fin troppo estremi e repressivi. Lo slogan “Jin Jiyan Azadî” (Donna, Vita, Libertà) ha pervaso dapprima le proteste a Teheran e nel Kurdistan iraniano, arrivando poi a diffondersi nel resto del Paese e conquistando i giovani per le strade di tutto il mondo.

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Le rivendicazioni, inizialmente incentrate sull’individuazione dei responsabili della morte di Mahsa Amini, si sono trasformate di fatto in proteste contro l’obbligo del velo e nella richiesta di maggiori libertà. Si è trattata di una movimentazione di massa di proporzioni mai viste prima dal regime rivoluzionario, tanto da spingere alcuni analisti a parlare di una vera e propria “rivoluzione culturale” nella società iraniana.
La forza propulsiva delle proteste è da ricercarsi nell’insoddisfazione verso lo status quo, che non può spiegarsi solo in termini ideologici. L’Iran è infatti da tempo alle prese con una forte crisi economica a causa di un’economia schiacciata dal peso delle sanzioni occidentali e viziata da problemi sistemici di corruzione e nepotismo. Semplificando il quadro, la potente macchina repressiva del governo, unita alla perdurante recessione economica, pesano sempre più sulla legittimazione del regime degli ayatollah e giustificano dunque l’acquiescenza e il sostegno tacito alle proteste anche da quella parte di popolazione che normalmente si identifica e sostiene il sistema.
Ed è proprio la variabile economica a rendere le proteste giovanili più potenti e pericolose che mai: come spiega bene Cecilia Sala nel suo libro, L’incendio, l’economia iraniana non riesce ad assorbire la gran quantità di lavoratori iper-qualificati che si laureano ogni anno. I giovani hanno dunque dovuto rimboccarsi le maniche autonomamente: ecco che sono nate una serie di start-up innovative, creando un’economia alternativa a quella in mano agli ayatollah e dunque una generazione economicamente autonoma dal governo – quindi in una posizione migliore rispetto ai propri genitori per far sentire la propria voce.
Oggi, nonostante il fuoco delle proteste sembri temporaneamente spento, il segno della rivoluzione che ha pervaso la popolazione iraniana rimane indelebile e si identifica nei numerosi atti di micro-ribellione quotidiana, come le donne che non indossano o mal-indossano l’hijab, divenuto ormai simbolo del controllo statale sulla popolazione.
Non solo: il malcontento e la generale delegittimazione del sistema si sono riflessi anche nelle ultime elezioni, nell’ambito delle quali l’affluenza si è attestata ai minimi storici, intorno al 40%. La vittoria di un candidato riformista non prelude alcun cambiamento sostanziale della situazione del Paese, come evidenziato dalla riconferma di molti ministri dell’amministrazione precedente. Inoltre, nel sistema iraniano è la Guida Suprema a detenere l’ultima parola, dando al presidente scarso spazio di manovra.
In Iran, l’elemento del velo obbligatorio è sicuramente un potente simbolo della lotta generazionale che verte sui dettami di un regime ormai invecchiato. Tuttavia, maggiori concessioni su questo punto ormai probabilmente non basterebbero a spegnere il malcontento che dilaga fra la popolazione iraniana e che preoccupa tanto il clero sciita, il quale si trova adesso a gestire una società frammentata in cui la componente giovanile, autonoma e maggioritaria, diviene sempre più “rumorosa”.
Sara Stella
Per approfondire l’argomento:
L’incendio – Cecilia Sala
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/5-grafici-capire-le-proteste-iran-36790
https://www.affarinternazionali.it/il-silenzio-delloccidente-sulle-rivolte-per-la-liberta-in-iran/
