Che cos’è l’artwashing?

Da sempre, l’arte ha rappresentato un potente strumento di comunicazione, in grado di superare i confini convenzionali e trasmettere emozioni. Unisce le persone usando un linguaggio globale che tutti possono comprendere e interpretare, aprendo al dialogo e facendo breccia nell’intimità di ognuno.
Non è un caso, dunque, che questa forza sia stata utilizzata anche dalle multinazionali per migliorare la propria immagine attraverso una strategia conosciuta come artwashing.
Questo termine, nato nel Regno Unito nel 2010, è una derivazione del più noto greenwashing e indica il mecenatismo aziendale, che ha lo scopo di mascherare l’impatto negativo delle attività di un’impresa, associandosi ai valori dell’arte.

In realtà tale pratica è nata ben prima del XXI secolo, e persino del XX: lo stesso mecenatismo, in un certo senso, potrebbe essere considerato una forma di artwashing. Un modo, insomma, per ripulire l’immagina pubblica delle famiglie al potere e per vincere il consenso pubblico.
Che l’arte sia uno strumento della politica non è nulla di nuovo: ciò che sta cambiando, invece, è il soggetto che sfrutta l’arte a proprio favore. Sempre più frequentemente si parla di multinazionali, soprattutto di quelle nel settore dei combustibili fossili.

La pratica dell’artwashing solleva preoccupazioni etiche sempre più ampie riguardo all’integrità dei musei, che dovrebbero promuovere valori come l’inclusività e la sostenibilità. I nuovi standard dell’ICOM del 2022 sottolineano proprio l’importanza di un approccio etico nella gestione delle istituzioni culturali. Tuttavia, in molti casi, la dipendenza dai fondi privati spinge i musei ad accettare sponsorizzazioni discutibili.

Uno dei primi esempi di resistenza a questa pratica è stata la campagna “Liberate Tate”, che mirava a spezzare il legame tra il museo Tate e la British Petroleum (BP). Gli attivisti volevano sensibilizzare artisti e visitatori sull’importanza di scelte etiche nella sponsorizzazione dell’arte. Dopo anni di proteste, nel 2016 la campagna ha avuto successo, con la decisione della Tate di interrompere la collaborazione con BP dopo 26 anni di finanziamenti.

La performance artist Amy Scaife che, nel 2011, protestò contro i finanzialmenti del BP al Tate Museum con la performance Human Cost.

Ma l’artwashing non ha sempre vita facile. Sempre nel 2016, il Museo della Scienza di Londra ha deciso di non rinnovare il contratto con Shell, in seguito alla scoperta di interferenze della compagnia nella selezione dei contenuti delle mostre, inclusa una sull’impatto dei cambiamenti climatici. Lo stesso anno ha segnato l’inizio di una serie di azioni simili negli Stati Uniti, dove il miliardario David Koch è stato costretto a lasciare il consiglio d’amministrazione del Museo Americano di Storia Naturale a causa del suo finanziamento di think tank che ostacolavano le politiche ambientali.

Il legame tra grandi istituzioni culturali e colossi del settore energetico ha continuato a suscitare controversie anche in Europa. Nel 2019, British Petroleum è stata accusata di artwashing per aver sponsorizzato l’acquisizione di opere di artisti aborigeni australiani per una mostra del British Museum, mentre la compagnia era criticata per le sue esplorazioni petrolifere in Australia. Allo stesso modo, la ONG 350.org ha lanciato una campagna per “liberare il Louvre” dalla collaborazione con Total, una delle principali compagnie petrolifere francesi.

Un altro esempio emblematico è la famiglia Sackler, responsabile della crisi degli oppioidi negli Stati Uniti attraverso la produzione del farmaco Oxycontin, che ha causato la morte di oltre 470.000 persone. Nonostante ciò, la Sackler ha finanziato musei prestigiosi come il Metropolitan e il Guggenheim di New York, senza sollevare particolari domande sull’origine dei fondi, fino all’intervento dell’artista Nan Goldin che ha guidato una serie di proteste. Anche in Europa la Sackler ha esteso i propri finanziamenti, supportando il Louvre e la Serpentine Gallery di Londra. Cosa che, naturalmente, solleva questioni sulla trasparenza dei musei, che sembrano più preoccupati di mantenere la propria sostenibilità economica che di garantire una gestione etica dei fondi.

Protesta del gruppo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now) al museo del Louvre, 1/07/2019



In Italia, la situazione appare diversa. La maggior parte dei musei è finanziata dallo Stato, è vero, ma i fondi pubblici sono limitati. E allora perché i colossi multinazionali non si sono ancora stanziati nei nostri musei? Che si tratti di una questione culturale, di una maggiore integrità da parte dei Direttori italiani, o di semplici circostanze fortunate, l’artwashing in Italia non è ancora propriamente arrivato.

Rebecca Siri

Crediti immagini: news.art.net, Stephane de Sakutin/AFP/Getty Images.

Lascia un commento