Capita, a volte, di chiedere a qualcun altro – che sia un’amica, una madre, o la commessa del negozio in cui si va a comprare i vestiti- come ci vede in quel momento. Guardarci allo specchio, nel riflesso di una vetrina mentre si cammina, o nell’acqua immobile di un lago non ci basta: c’è bisogno dello sguardo dell’altro. C’è un inevitabile confronto con l’alterità, anche solo supposta: abbiamo bisogno di rivolgerci a qualcuno, di considerare e includere nel nostro sguardo su noi stessi anche lo sguardo dell’altro.
Il tema del sé ha origini lontane: già i filosofi greci si interrogavano se esistesse un’anima, su cosa fosse e su come si potesse definire. Socrate riteneva che la conoscenza del sé avvenisse nelle conversazioni con gli altri; Aristotele distingueva il pensare se stessi dal percepire se stessi, a significare che la consapevolezza del sé dipende dalla consapevolezza di ciò che è esterno alla mente. In epoca cristiana si inizia a pensare che il sé non sia qualcosa di già stabilito a priori, ma qualcosa che può essere costruito. Successivamente, con Cartesio e il suo “cogito ergo sum”, il sé diventa, oltre che un oggetto, un’azione, anzi, un soggetto in azione. Con Kant e Hume si definisce meglio quella relazione tra il sé e il mondo, che diventa fondamentale, in quanto il sé è sempre situato e quindi connesso alla nostra percezione del contesto e di noi stessi all’interno di quel contesto. Per Baldwin e Cooley, il sé si sviluppa in relazione con gli altri e con la società: gli individui si vedono nel modo in cui pensano di essere visti dagli altri.
L’idea del sé sociale prende sempre più importanza, così come l’idea della convivenza di molteplici sé, in quanto il sé è inteso come sempre in evoluzione, che cambia nel tempo. Può essere considerato come una moltitudine di processi che interagiscono ed evolvono.
La storia del sé giunge poi a confrontarsi con la tecnologia, con i “post-human selves”, i sé cyborg, che spesso si trovano a metà tra uomo e macchina. Il sé non è solo fisico ma è un insieme di dati. Si confronta anche con la neuroscienza, che individua l’insula come area coinvolta nella coscienza, che va dalla percezione, alla propria consapevolezza, alle esperienze.
Il tema della rappresentazione del sé e del sé in rapporto con l’altro viene affrontato anche nell’arte, in particolare nel genere pittorico del ritratto e dell’autoritratto. Il ritratto, per definizione, è la rappresentazione di una persona, soprattutto del viso, eseguita dal vero, ma, riferendosi in particolare al termine italiano “ritratto” è anche una raffigurazione, una copia, una riproduzione. In particolare, nell’autoritratto non viene rappresentata soltanto una somiglianza, ma si affronta il tema del sé, in particolare l’idea che l’artista ha del sé e dell’identità. In molti casi l’autoritratto non raffigura soltanto l’artista stesso, ma l’artista impegnato nel processo di rappresentazione, mentre dipinge.
C’è quindi una dimensione di “techne”, intesa come tecnica, arte, abilità, che rimanda inevitabilmente a un processo manuale. Questo processo è spesso rivelato attraverso dispositivi interni al quadro stesso: finestre, aperture, ma soprattutto, lo specchio. Lo specchio come strumento che crea un’immagine speculare di sé, che, a seconda della sua posizione, rivela il viso dell’artista, o il contenuto di quello che sta dipingendo, e che, in qualunque caso, rivela una parte che altrimenti non sarebbe direttamente visibile nell’opera. In breve, lo specchio moltiplica i punti di vista. Un ritratto è tante cose: una somiglianza o una riproduzione, ma allo stesso tempo la dimostrazione di una tecnica e di un processo, rappresentato nel suo divenire. Però la questione del sé e della sua rappresentazione non riguarda soltanto l’artista, riguarda anche l’artista, perché il ruolo dell’osservatore è fondamentale. In ogni ritratto c’è sempre una costruzione spazio-temporale che ha a che fare sia con il passato (la presenza dell’artista che crea l’opera) e il futuro (la presenza di un osservatore che guarda l’opera).
“[…] the painter can be seen in the self-portrait both as an object and as a subject, often
caught in the act of painting, in dialogue with an absent viewer […]”(Giannachi 2023: 14)
L’autoritratto diventa quindi un modo per esplorare la concezione del sé dal punto di vista spaziale, temporale, ma anche sociale, che include sia artista sia spettatore, in un gioco reciproco di presenza/assenza. Nella rappresentazione del sé non si può mai davvero essere presenti: c’è uno sfasamento, tra la presenza della rappresentazione, che però, una volta rappresentata, appartiene inevitabilmente già al passato. E, soprattutto, non si può mai davvero essere soli, perché, anche se nel momento della rappresentazione solo l’artista è presente, inevitabilmente suppone la presenza futura di un osservatore a cui rivolgersi e mettersi in dialogo, anche se in tempi e luoghi differenti.
Laura Marchese
Bibliografia:
Giannachi G. (2023), Technologies of the self-portrait, Routledge, New York
