Non è difficile ipotizzare come si andrà a svolgere una giornata tipica di un qualunque giovane. In particolare, non è difficile andare a presupporre quali saranno i suoni e i rumori che andranno a fare da sfondo alla sua giornata. Se l’unico momento di silenzio è quello che ci avvolge durante il sonno, presto questo viene spezzato dal suono della sveglia, seguito da numerosi altri piccoli rumori – il rombo delle auto in strada, la televisione accesa, il chiacchiericcio della gente, le notifiche del cellulare.
Inoltre, i momenti “vuoti”, quali ad esempio quelli che trascorrono in silenzio durante il tragitto verso la propria università o verso il posto di lavoro, sono spesso colmati da un paio di cuffiette: ed ecco che il nostro cervello si concentra sui brani riprodotti dalla nostra playlist preferita, oppure da una puntata di un podcast interessante. Così, in ogni – o quasi – fase della nostra giornata, il silenzio viene cacciato via, relegato in un angolo e sostituito da un accompagnamento costante di suoni. In un mondo in cui il vuoto fa paura, il podcast e la musica diventano la colonna sonora della nostra quotidianità, impedendoci di rimanere soli con noi stessi. E questo non avviene solamente a casa o sui mezzi, ma anche in moltissimi luoghi pubblici: è il caso dei negozi di abbigliamento, dei bar, dei ristoranti ecc. Ormai anche gli spazi cosiddetti “liminali”, ovvero i luoghi pensati per essere unicamente di passaggio, come gli aeroporti o i centri commerciali, spesso provvedono un sottofondo musicale.
È certamente un dato di fatto che le fonti di intrattenimento, mediante i social network, si siano ormai imposte al di sopra di qualunque altro prodotto culturale, diventando delle vere e proprie dipendenze: basti pensare che, ad oggi, l’utente medio trascorre quasi due ore e mezza sui social (Fonte: wearesocial.com). Eppure, ancora non si riflette abbastanza sull’intrattenimento esclusivamente sonoro. Può essere anch’esso paragonato a una dipendenza, come quella dai social network? D’altronde, a partire dalla diffusione del walkman, negli anni ’80, il nostro modo di ascoltare è mutato radicalmente, in quanto la musica è divenuta un prodotto portatile; da allora, abbiamo trascorso sempre più tempo con le cuffie nelle orecchie.
Quello che è certo è che, se come molti sostengono, la musica ha sostituito la poesia (del resto Bob Dylan ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura), allora essa ci ha privato di un elemento prezioso: il silenzio. Se pensiamo, infatti, alla poesia, è innegabile notare come la parola scritta sia costantemente pervasa dalla quiete; da quella di Ungaretti che rimanda al dolore, a quella della contemplazione di Leopardi, fino al rifugio protettivo di Pascoli. Nella sua ricchezza di significati essa ci permette di riflettere e di connetterci con la dimensione più pura di ciò che siamo. In un mondo dominato dalla frenesia e dal costante bisogno di produttività, è l’unica dimensione che permette di rallentare, di ascoltarsi e di dare valore al presente, mettendo da parte tutto il resto. Stare soli con noi stessi è il dono più grande che possiamo fare alla nostra mente, permettendole di riposarsi e di migliorare le nostre condizioni psicologiche. In effetti, l’unico modo per leggere efficientemente, comprendendo davvero quanto scritto, è nella calma.
Che fine ha fatto il silenzio? Sembra essere diventato ormai un momento raro della nostra quotidianità, perennemente a rischio di attacco dalla costante esposizione telematica. Mentre in Oriente questa concezione dell’assenza di suono è ancora considerata importante per il benessere individuale, noi stiamo perdendo la capacità di “ascoltare” la quiete e di darne il giusto peso.
Riflettere e riconnetterci con noi stessi è il primo passo per poterci distogliere dal senso di alienazione imposto dalla società occidentale, e il silenzio è uno degli ultimi appigli da cui ripartire, per andare controcorrente.
Monica Poletti
Fonti: IstitutoBeck, WeAreSocial
Immagine di copertina: Pinterest
